Esterovestizioni, costruzioni artificiose sotto tiro

8 Febbraio 2017

Il Sole 24 Ore 10 Gennaio 2017 di Davide Cagnoni e Alessandro Germani

Sedi estere. Già la Cassazione aveva sottolineato la liceità dell’attività di direzione e coordinamento nei confronti di uffici oltrefrontiera

Nell’attuale economia globale i gruppi sono strutturati con headquarter molto articolati, che accentrano funzioni no core quali finanza, legale, audit, compliance e con strutture periferiche “leggere” nei mercati di sbocco. Spesso, poi, vi sono entità ad hoc in determinati Paesi dove si concentrano attività quali la ricerca e sviluppo. Tutto ciò genera molteplici transazioni intercompany, che richiedono la definizione di prezzi di trasferimento a valore di mercato. In questi casi, l’amministrazione fiscale tende a contestare l’esterovestizione di società estere appartenenti a gruppi italiani o la stabile organizzazione occulta di gruppi esteri con controllate italiane.
Per ciò che concerne il fenomeno dell’esterovestizione, i rilievi riguardano i due seguenti profili:
la residenza fiscale (articolo 73, comma 3 del Tuir) di società estere, con onere della prova a carico dell’amministrazione, ricondotte a tassazione in Italia in base alla sede di direzione effettiva (place of effective management);
l’esterovestizione vera e propria (articolo 73 comma 5-bis), con onere della prova a carico del contribuente, qualora la società estera controlli una società italiana e sia a sua volta controllata da soggetti residenti o amministrata da residenti.
In ambo i casi, la presenza di subholding passive, relegate ad una detenzione statica delle partecipazioni, determina la contestazione dell’attività di direzione e coordinamento della holding italiana. In tali ipotesi può essere di aiuto la prevalenza di asset esteri in portafoglio (Assonime n. 67/07). Tuttavia lo stesso rilievo viene talvolta utilizzato anche nei confronti di società operative. Ciò porterebbe al paradosso estremo che tutte le consociate di una multinazionale siano da considerarsi residenti nello Stato di stabilimento della capogruppo (Assonime nota 17/16). Nell’ambito del contenzioso relativo a queste tematiche è quindi da tenere in debita considerazione quanto affermato dalla Cassazione (sentenza n. 43809/15), che ha per la prima volta posto l’accento sulla liceità – e normalità – dell’attività di direzione e coordinamento (articolo 2497 Codice civile) introdotta con la Riforma Vietti. Pertanto, è del tutto fisiologico che gli impulsi sulla controllata non residente promanino dalla controllante italiana, in quanto ciò che rileva ai fini della contestazione di esterovestizione sono solo le costruzioni di puro artificio. Di conseguenza, la semplice nozione di ufficio che, ai sensi dell’articolo 162 del Tuir, ha i connotati per configurare una stabile organizzazione, potrà essere positivamente valutata altresì come luogo di effettivo esercizio dell’attività d’impresa.
Venendo, invece, alla stabile organizzazione, nei gruppi multinazionali si assiste sempre di più alla tendenza di insediarsi all’estero non attraverso strutture societarie (subsidiaries), bensì con stabili organizzazioni (branch), che rispondono all’esigenza di una maggiore flessibilità e semplificazione societaria. Questa è la situazione fisiologica che trova ampio riscontro. Differente è il caso patologico in cui un soggetto non residente nasconde la propria attività economica al fisco italiano, in quanto viene celato il soggetto passivo e la sua conseguente produzione di reddito in Italia. Nella pratica, la controllata residente mette a disposizione del soggetto non residente attrezzature e personale, ospitando al proprio interno una stabile organizzazione occulta come fosse una “enclave”.
Tra le due situazioni estreme esiste poi la normalità di subsidiaries svuotate di funzioni allocate nelle capogruppo o in altre entità (principal companies) deputate alla ricerca e sviluppo o alla gestione degli intangibles. Ciò, tuttavia, non deve condurre alla semplicistica conclusione che tutte le entità locali di un gruppo multinazionale siano stabili occulte (Assonime, nota 17/16). Occorrerebbe, infatti, considerare il livello di tassazione della controllante non residente, in quanto se la stessa non è localizzata in un Paese a fiscalità privilegiata né beneficia di regimi agevolativi o di ruling, non vi è motivo per erodere la base imponibile italiana. Quindi, la semplice contestazione legata alla limitata autonomia e sostanziale dipendenza della controllata italiana non può essere sufficiente, di per sé, a configurare una stabile occulta. Né tantomeno basta l’individuazione di fumose funzioni ultronee rispetto al business (Cassazione n. 3773/12).
In un contesto che dovrebbe incentivare l’afflusso di investimenti esteri sarebbe, pertanto, opportuno un approccio che contrasti le sole costruzioni di puro artificio.

Doing business in San Marino

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