Il residente all’estero che lavora nella zona di confine paga le imposte sui redditi solo in Francia

11 Novembre 2019

Quotidiano del Fisco – Il Sole 24 Ore 29 OTTOBRE 2019 di Antonio Longo

L’italiano residente in Francia che lavora nella zona di confine con l’Italia deve pagare le imposte sui redditi solo allo Stato francese. È questa la conclusione dell’Agenzia nella risposta a interpello 433/2019 di ieri.

L’istante è residente in Francia ed è iscritto all’Aire nei registri del Comune di Ventimiglia dal 2004. Nel 2017 viene assunto presso una società italiana e svolge la propria attività lavorativa in Italia. Ai fini fiscali italiani, sono residenti coloro che, per la maggior parte del periodo d’imposta, sono iscritti nelle anagrafi dei residenti oppure hanno in Italia il domicilio o la residenza ai sensi del codice civile. I tre requisiti sono alternativi per cui il verificarsi di uno solo di essi è sufficiente perché un soggetto sia considerato residente in Italia. Verificatasi la cancellazione dall’anagrafe italiana e la conseguente iscrizione all’Aire (condizione necessaria ma non sufficiente) occorre una valutazione d’insieme dei rapporti – personali ed economici – che il soggetto intrattiene nel nostro Paese per verificare se, nel periodo in cui è stato anagraficamente residente all’estero, possa essere considerato (anche) fiscalmente non residente.

Assumendo che l’istante sia residente in Francia (è questa una verifica fattuale che l’Agenzia non è tenuta a fare in sede di interpello), il paragrafo 4 dell’articolo 15 della Convenzione contro le doppie imposizioni tra Italia e Francia prevede che i redditi da lavoro dipendente di persone che abitano nella zona di frontiera di uno Stato e che lavorano nella zona di frontiera dell’altro Stato siano imponibili soltanto nello Stato di residenza.

In specie, dichiarandosi fiscalmente residente in Francia e svolgendo la propria attività lavorativa in Ventimiglia (zona di frontiera), l’istante assume lo status di frontaliere: il reddito prodotto sarà quindi tassato esclusivamente in Francia. Tuttavia, la società italiana sostituto di imposta, può, sotto la propria responsabilità, applicare il regime convenzionale previa presentazione, da parte del lavoratore, della documentazione idonea a dimostrare la sussistenza di tutti i requisiti previsti dalla Convenzione (confronta, tra le altre, risoluzione 86/E/2006). Pertanto, il lavoratore che dovesse subire eventuali ritenute dal datore di lavoro italiano (nei casi di incertezza circa l’applicabilità del regime convenzionale di favore) potrà chiedere all’erario il rimborso delle maggiori imposte versate.

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Lussemburgo verso lo stop ai ruling firmati prima del 2015

11 Novembre 2019

Il Sole 24 Ore 18 OTTOBRE 2019 di Raffaele Villa

 FISCO INTERNAZIONALE

Proposta del Governo nella Finanziaria 2020 trasmessa al Parlamento

In caso di approvazione andranno ripensati i comportamenti tributari

Il 14 ottobre il Governo lussemburghese ha trasmesso al Parlamento una proposta di disegno di legge finanziaria 2020 che prevede, tra l’altro, la cessazione a partire dal 1° gennaio 2020 dell’efficacia degli accordi fiscali preventivi (ruling) concordati con l’amministrazione finanziaria lussemburghese prima del 2015.

Tale proposta sembrerebbe, tra l’altro, in linea con la formalizzazione in un testo normativo (legge 19 dicembre 2014 e decreto 23 dicembre 2014) della procedura di accordo preventivo in vigore dal 1° gennaio 2015, per il quale è prevista una durata di massimo cinque anni. Infatti, prima di allora, la procedura di accordo era disciplinata meramente da una nota interna dell’autorità fiscale lussemburghese del 1989 e non sono rari casi di accordi ante 2015 aventi durata ultra-quinquennale.

In Lussemburgo, così come in altri Paesi (fra cui l’Italia), la finalità degli accordi preventivi con l’amministrazione finanziaria è per il contribuente quella di ottenere certezza circa il trattamento fiscale applicabile ad una particolare operazione, o insieme di operazioni, in base al diritto tributario vigente. Pertanto, il trattamento fiscale di una determinata operazione non dipende dalla presenza di un accordo preventivo che, al più, dovrebbe limitarsi a confermare il trattamento fiscale sulla base della normativa applicabile, senza tuttavia porsi in contrasto con quest’ultima. Certamente gli accordi preventivi possono costituire nella pratica un valido supporto al contribuente, ad esempio nei casi di normative poco chiare che rendono l’interpretazione da parte del contribuente particolarmente difficile ed incerta.

Sebbene in Lussemburgo non esista un obbligo di interpellare l’amministrazione finanziaria per ottenere certezza circa l’interpretazione della normativa fiscale locale, la richiesta di accordi preventivi è da anni la prassi di mercato, anche in relazione ad operazioni e strutture fiscali meno complesse per le quali non si pongono particolari dubbi interpretativi.

Peraltro, i contribuenti lussemburghesi non sono nuovi al tema della inefficacia degli accordi preventivi, i quali generalmente prevedono una efficacia temporale limitata e la cessazione dei propri effetti qualora si pongano in contrasto con normative lussemburghesi o internazionali sopravvenute.

Ciò premesso, assumendo che il disegno di legge finanziaria sia approvato nella sua formulazione attuale, è possibile ipotizzare che i contribuenti si troveranno a dover valutare, prima della scadenza originariamente concordata con l’amministrazione finanziaria lussemburghese, se, alla luce della normativa vigente, possano ancora fare affidamento sul trattamento fiscale che hanno applicato alle proprie operazioni e strutture sulla base degli accordi preventivi conclusi prima del 1° gennaio 2015, fermo restando che la modifica proposta dovrebbe avere efficacia solo per il futuro e, pertanto, salvare in ogni caso le condotte fiscali adottate sino ad oggi in conformità agli accordi (e allo ius superveniens).

Qualora il trattamento fiscale concordato rischi di porsi in contrasto con la normativa vigente, i contribuenti dovrebbero valutare la possibilità di chiedere all’amministrazione finanziaria lussemburghese un nuovo accordo preventivo (tra l’altro, soggetto allo scambio di informazioni con le amministrazioni finanziarie estere dell’Unione europea).

In conclusione, se è vero che questa modifica dovrebbe comportare il sostenimento di costi di compliance da parte dei contribuenti – quantomeno per la verifica della tenuta delle operazioni in assenza di ruling – è altrettanto vero che la stessa obbliga ad un ripensamento delle strutture in essere, oggi reso ancor più impellente tenuto conto dei recenti sviluppi di fiscalità internazionale (ad esempio Beps, Atad 1 e Atad 2).

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Il committente risponde in solido anche delle ritenute

11 Novembre 2019

Il Sole 24 Ore 17 OTTOBRE 2019  di Giorgio Gavelli

LAVORO

La responsabilità solidale si estende sui mancati versamenti al fisco

Vietata la compensazione Vanno indicati i nomi dei lavoratori impiegati

Torna la responsabilità del committente per le ritenute fiscali operate ai dipendenti nella filiera di appalti e subappalti. Nata con il Dl 223/2006, abrogata dal Dl 175/2014 è oggi ripescata dal decreto fiscale con un grado di farraginosità più elevato. Le modifiche non toccano l’articolo 29 del Dlgs 276/2003, in cui è disciplinata la responsabilità in solido del committente imprenditore con l’appaltatore e i subappaltatori per le retribuzioni, i contributi previdenziali e i premi assicurativi; viene, tuttavia, introdotto, per queste somme, un divieto di compensazione integrale nei versamenti, per cui i codici tributo non accetteranno più, nell’F24, alcuno scambio con altri crediti del contribuente.

In deroga all’articolo 17 del Dlgs 241/97, il nuovo articolo 17-bis prevede che in tutti i casi di affidamento di un’opera o un servizio da parte di un sostituto d’imposta residente (sono esclusi i privati, ma vi rientrano enti pubblici e i condomini), le ritenute sui redditi di lavoro dipendente e assimilato – comprese quelle per le addizionali regionali e comunali – operate dall’impresa appaltatrice, affidataria o subappaltatrice nel corso della durata del contratto sono versate dal committente. L’obbligo si riferisce alle somme riguardanti i soli «lavoratori direttamente impiegati nell’esecuzione dell’opera o del servizio» affidato, ma qui emerge una forte criticità. Infatti, lo stesso dipendente può aver lavorato per una pluralità di cantieri di pertinenza di committenti differenti. Per questo è previsto che committente e appaltatrice ricevano via Pec dalle imprese partecipanti all’appalto l’elenco nominativo dei dipendenti che hanno operato, con l’indicazione delle ore lavorate in quell’opera/servizio, e tutti i dati per riscontrare la correttezza del versamento e compilare l’F24. Infatti, è previsto che l’impresa che ha effettuato le ritenute versi al committente le somme necessarie almeno con 5 giorni lavorativi di anticipo rispetto alla scadenza.

Il versamento avviene senza possibilità di operare compensazioni con crediti propri, indicando nell’F24 il codice fiscale del soggetto per cui il versamento è eseguito. Se entro la data prevista per il bonifico, l’impresa appaltatrice o affidataria vanta crediti per corrispettivi verso l’impresa committente, alla comunicazione via Pec può allegare la richiesta di compensazione totale o parziale delle somme dovute (anche dalle subappaltatrici) con tali corrispettivi. Quindi, la responsabilità per le ritenute a carico delle imprese della filiera: è del committente se non versa quanto ricevuto nei termini, non comunica i dati del conto in cui ricevere le somme o esegue pagamenti alle imprese affidatarie senza trattenere gli importi da destinare al versamento delle ritenute; è delle imprese appaltatrici/subappaltatrici per la corretta determinazione ed esecuzione delle ritenute e in caso di mancato versamento al committente della provvista o di omissione dei dati necessari al versamento.

In tutti i casi in cui il committente non è messo nelle condizioni di effettuare il versamento deve sospendere il pagamento dei corrispettivi (senza temere azioni esecutive), vincolando le somme al pagamento delle ritenute “di rivalsa” e dandone comunicazione alle Entrate entro 90 giorni. Entro tale termine, infatti, è previsto il ravvedimento operoso da parte del committente, su richiesta e con onere a carico dell’appaltatrice/subappaltatrice inadempiente. Analoga comunicazione all’Agenzia è prevista, a cura delle imprese della filiera, qualora la committente non comunichi, entro 5 giorni, mediante Pec, l’avvenuto versamento delle ritenute nei termini.

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Evasione e riciclaggio collegabili con false fatture

11 Novembre 2019

Il Sole 24 Ore 11 OTTOBRE 2019 di Valerio Vallefuoco

CASSAZIONE

Provata la stretta relazione tra la violazione tributaria e la ripulitura del denaro

Per la Cassazione commette il reato di «riciclaggio e di intestazione fittizia di beni» il legale rappresentante di una società commerciale che utilizza fatture per operazioni inesistenti per consentire a terzi il riciclaggio. Con la sentenza 41625 depositata ieri la Suprema corte ha confermato il sequestro preventivo finalizzato alla confisca per equivalente di alcune ingenti somme, emesso dal giudice per le indagini preliminari di Milano e già confermato dallo stesso tribunale del riesame di Milano. L’indagato era socio accomandatario di una società per accomandita semplice che secondo l’accusa aveva utilizzato nella dichiarazione fiscale della società diverse fatture per operazioni inesistenti al fine di evadere le imposte sui redditi e sull’Iva violando l’articolo 2 del Dlgs 74/2000 nonché al fine di consentire a soggetti terzi individuati il reato di riciclaggio e di intestazione fittizia di beni. Secondo la Corte, che ha confermato con un giudicato seppure ancora cautelare il caso, ci sarebbero quindi tutti gli elementi richiesti per l’applicazione della misura del sequestro preventivo poiché l’indagato avrebbe avuto ben presente l’oggettiva finalizzazione della sua condotta al compimento di un altro reato, ovvero all’occultamento di reato precedente, in quanto cosciente e consapevole del complesso sistema di ripulitura del denaro attraverso un’associazione per delinquere transazionale. Il provvedimento di merito aveva ben illustrato il complesso meccanismo illecito della società italiana: l’indagato era cliente delle due società estere del coindagato che per alcuni anni avevano emesso fatture per prestazioni inesistenti così da consentire alla società italiana di evadere le imposte; la società italiana, infatti, versava i corrispettivi delle fatture false alle società estere che, a loro volta, retrocedevano in contanti ingenti somme all’indagato; da questo complesso meccanismo si deduce l’oggettiva finalizzazione a consentire a terzi individuati, appunto, la commissione del delitto di riciclaggio ed intestazione fittizia di beni.

Tale condotta avveniva attraverso la movimentazione di denaro e diverse retrocessioni su conti correnti di società con sedi legali all’estero in particolare a Hong Kong , Belize , Cipro e Mauritius. Emblematica l’espressione utilizzata dai giudici della Cassazione nella motivazione sullo stretto legame tra la violazione penale tributaria e il riciclaggio : «la violazione fiscale si pone in stretta relazione con il riciclaggio» poiché secondo la Corte solo attraverso questo meccanismo di “ripulitura” fiscale e il rientro delle somme in contanti si poteva consentire la retrocessione di quanto già corrisposto con le fatture false.

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Tassati in Italia gli interessi percepiti da banche estere su prestiti a residenti

7 Ottobre 2019

Quotidiano del Fisco – Il Sole 24 Ore 12 SETTEMBRE 2019 di Andrea Fagiani e Valerio Vallefuoco

La risposta delle Entrate 379/2019 di ieri in tema di tassazione in Italia degli interessi attivi percepiti da un non residente su prestiti finanziari concessi a residenti italiani, è da considerarsi un’ulteriore conferma di un nuovo orientamento che si sta consolidando, pur necessitando maggiori chiarimenti alla luce di precedenti giurisprudenziali in contrasto con tale posizione.

Le Entrate confermano l’obbligo di tassazione domestica degli interessi attivi percepiti dalle banche elvetiche e corrisposti da residenti italiani in ragione dell’applicazione del nostro Tuir (articoli 151, commi 1 e 2, e 23, comma 1, lettera b del Tuir). Per l’Amministrazione il reddito delle società e degli enti commerciali non residenti «è formato soltanto dai redditi prodotti nel territorio dello Stato», individuati però dall’articolo 23 del Tuir che al comma 1, lettera b, prevede che siano assoggettati ad imposizione in Italia, in quanto si considerano prodotti nel medesimo territorio, i redditi di capitale corrisposti, tra gli altri, da soggetti residenti nel territorio dello Stato.

La citata disposizione, per attrarre a tassazione in Italia la tipologia di redditi di capitale utilizza, quale criterio di collegamento, la residenza del soggetto che eroga il reddito, esulando da qualsiasi connessione con il luogo in cui è stata svolta l’attività che ha generato il reddito medesimo.

L’orientamento del Fisco italiano, sulla base della nuova formulazione dell’articolo 151 del Tuir, aderisce quindi ormai all’indirizzo prevalente della tassazione dei non residenti su base isolata, che si pone in contrasto con alcune sentenze della Cassazione.

Le Entrate chiariscono inoltre la portata applicativa dell’articolo 11 del modello Ocse, con riguardo alla determinazione dell’imposta che potrà pertanto godere del trattamento convenzionale più favorevole (del 12.50%). Si ricorda che l’articolo 11 del modello Ocse e contenuto non solo nella Convenzione Italia e Svizzera ma in diverse altre Convenzioni, tra cui quella di San Marino.

In ultimo, si evidenzia come siano stati già avviate, negli ultimi mesi, verifiche e accertamenti nei confronti di intermediari finanziari esteri per mezzo della collaborazione tra l’Ufficio per il contrasto degli illeciti finanziari internazionali (Ucifi) presso la direzione regionale dell’agenzia delle Entrate di Milano e Torino, la Gdf e la procura di Milano. Gli accertamenti nati dall’analisi dei dati della voluntary disclosure effettuati dall’Ucifi di Milano, riguardano centinaia di istituti bancari esteri, i quali sono stati destinatari di questionari con la previsione, nel caso di mancate risposta, o di risposte mendaci, di sanzioni amministrative e penali.

In considerazione della novità e della necessità di chiarimenti anche di Cassazione, in contrasto con l’orientamento delle Entrate, sembrerebbe potersi escludere, con riguardo alla condotta ascritta l’elemento soggettivo del dolo da evasione e sembrerebbe altresì opportuno valutare l’applicazione della la causa di esclusione delle sanzioni amministrative tributarie, per incertezza normativa ed interpretativa. Questo orientamento dell’amministrazione non potrà che non incidere sulle valutazioni che dovranno fare sia per il passato che per il futuro le banche estere sulla loro compliance fiscale per le operazioni transfrontaliere con il mercato Italia.

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I giudici mandano «in coda» il rimborso dei prestiti ai soci

7 Ottobre 2019

Il Sole 24 Ore lunedì 02 SETTEMBRE 2019 di Giorgio Gavelli

SOCIETÀ E BILANCI

I giudici mandano «in coda» il rimborso dei prestiti ai soci

La giurisprudenza estende la postergazione alle Spa e a tutte le forme di debito

Sindaci e amministratori devono monitorare le situazioni a rischio

Restituire ai soci i finanziamenti da questi effettuati può costituire un problema per amministratori e sindaci. Anche alla luce della nozione “ampia” di divieto specifico adottata dalla giurisprudenza. Vediamo perché.

L’articolo 2467 del Codice civile prevede che «il rimborso dei finanziamenti dei soci a favore della società è postergato rispetto alla soddisfazione degli altri creditori e, se avvenuto nell’anno precedente la dichiarazione di fallimento della società, deve essere restituito».

Il campo di applicazione

Ai fini di questa norma (che, per effetto dell’articolo 383 del Codice della crisi, dal 15 agosto 2020 perderà il riferimento al fallimento) rilevano i finanziamenti da soci «in qualsiasi forma effettuati, che sono stati concessi in un momento in cui, anche in considerazione del tipo di attività esercitata dalla società, risulta un eccessivo squilibrio dell’indebitamento rispetto al patrimonio netto oppure in una situazione finanziaria della società nella quale sarebbe stato ragionevole un conferimento».

Si intende, quindi, penalizzare il socio che ha scelto di finanziare la società quando avrebbe dovuto patrimonializzarla, creando così un legame con le somme erogate più facilmente scindibile in caso di avvisaglie di dissesto.

Divieto di restituzione

Il divieto di restituzione opera già nel corso dell’ordinaria attività d’impresa e non solo in sede di concorso tra creditori (Cassazione 12994/2019 e 25163/2017). Tuttavia, è evidente che occorre ragionare caso per caso, essendo «l’eccessivo squilibrio» finanziario e la «ragionevolezza» del conferimento in luogo del prestito due concetti da valutare nel concreto.

La giurisprudenza, ad ogni modo, pare applicare al caso di specie le stesse conclusioni a cui si giungerebbe in caso di restituzione di versamenti in conto capitale (Cassazione 31186/2018 e 50188/2017) e anche delle risorse ottenute a fronte dell’emissione di obbligazioni (Cassazione 16921/2018; in senso contrario, peraltro, Tribunale di Bologna 9 marzo 2016 n. 1030 e Tribunale di Milano 25 luglio 2014).

La norma è dettata espressamente per le Srl, ed è richiamata in caso di prestiti provenienti dalla società che esercita la «direzione e coordinamento» o dagli altri soggetti ad essa sottoposti (articolo 2497-quinquies). Il dato letterale non va, tuttavia, inteso in senso limitativo: secondo la giurisprudenza (Cassazione 16291/2018 e 14056/2015, Tribunale di Milano, sentenze 9104/2015 e 1658/2015) la norma si applica anche alle Spa che esercitano «imprese di modeste dimensioni e con compagini sociali familiari o comunque ristrette (chiuse)».

In senso parzialmente contrario si sono espressi la circolare Assonime 40/2007 e lo stesso Tribunale di Milano (sentenza 11552/2017). Né, secondo il Tribunale di Milano (sentenza 1658/2015), può costituire esimente il fatto che il finanziamento sia stato erogato nella fase di “start up” aziendale, così come la volontà del socio di compensare un proprio debito (Tribunale di Roma 6 febbraio 2017).

La giurisprudenza sembra accogliere tesi assai estensive anche con riferimento alla genesi del debito nei confronti del socio, qualificando nell’ambito della fattispecie prevista dalla norma anche crediti dei soci per prestazioni professionali (Tribunale di Milano 13 ottobre 2016), dilazioni di pagamento (Tribunale di Treviso 12 marzo 2019), pagamenti di creditori sociali (Cassazione 20649/2019) e prestazioni di garanzie (Tribunale di Reggio Emilia 10 giugno 2015 e Tribunale di Milano 4 giugno 2013).

Le sanzioni

Le conseguenze della violazione di questo precetto normativo possono essere molto gravi, essendo configurabile per gli amministratori – in particolare laddove essi coincidano con i soci beneficiari della restituzione – il reato di bancarotta patrimoniale per distrazione, con il concorso per i sindaci che non hanno impedito tale condotta (Cassazione 26041/2019, 12186/2019 e 50495/2018).

Come ricorda la Norma di comportamento 10.7 del Consiglio nazionale dei dottori commercialisti ed esperti contabili, vi deve essere una attenta verifica da parte del Collegio sindacale, finalizzata a scongiurare il rischio che, attraverso la restituzione, vengano lese le ragioni dei creditori mediante una indebita riduzione del patrimonio sociale.

Inoltre, occorre verificare che il tutto avvenga nel rispetto, oltre che dei precetti statutari, delle disposizioni creditizie che regolano questo tipo di raccolta del risparmio (provvedimento Bankitalia 8 novembre 2016 e deliberazione Cicr 19 luglio 2005, n. 1058).

L’onere della prova

Ai fini probatori, incombe sulla società convenuta dai soci per la restituzione del finanziamento eccepire e dimostrare nell’ambito del giudizio la ricorrenza delle condizioni previste dal legislatore per la postergazione, non essendo sufficiente dimostrare che l’attività si è svolta per alcuni periodi in perdita (Tribunale di Roma 5 febbraio 2019, Tribunale di Milano 13 ottobre 2016 e 25 gennaio 2016).

Per quanto attiene alla redazione del bilancio, i finanziamenti operati dai soci – compresi quelli provenienti da un socio che è anche una società controllante – che prevedono un obbligo alla restituzione vanno iscritti nel passivo, alla voce D.3), indipendentemente dalla natura fruttifera o meno e dalla proporzionalità rispetto alla partecipazione al capitale (principio Oic 19).

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Bocciati i patti di non concorrenza indeterminati

7 Ottobre 2019

Il Sole 24 Ore lunedì 02 SETTEMBRE 2019 di Monica Lambrou

LAVORO

Il Tribunale di Modena blocca il compenso mensile versato durante il rapporto

Il patto di non concorrenza stipulato fra azienda e lavoratore rischia di essere nullo se ha un contenuto indeterminato. Lo ha stabilito il tribunale di Modena (sezione lavoro), con sentenza del 23 maggio 2019. Nella sentenza si precisa che, in base all’articolo 2125 Codice civile, il patto di non concorrenza pone limiti all’attività del lavoratore dopo la cessazione del suo rapporto di lavoro ed è finalizzato a contemperare due ordini di interessi contrapposti: quello del datore di lavoro di proteggere il suo “patrimonio” e, quindi, il know how, l’avviamento e la clientela acquisita e quello del lavoratore a non subire un’eccessiva restrizione delle possibilità di trovare una nuova occupazione.

Si tratta di un contratto a titolo oneroso a prestazioni corrispettive, per il quale vi sono limiti idonei a inficiarne, se non rispettati, la validità. In particolare, il patto deve considerarsi affetto da nullità «se non risulta da atto scritto, se non è pattuito un corrispettivo a favore del prestatore di lavoro» nonché se il vincolo posto in capo al dipendente «non è contenuto entro determinati limiti di oggetto, di tempo e di luogo».

La forma scritta dell’atto è richiesta ab substantiam, con conseguente nullità del patto in caso di ricorso ad altre forme.

Tra i principali contrasti interpretativi c’è il dibattito relativo alla legittimità di eventuali patti di opzione ovvero clausole di recesso, che riservino al datore di lavoro la facoltà di non avvalersi, in seguito alla stipula e entro un termine predeterminato, del patto di non concorrenza stesso, con conseguente venir meno del diritto del dipendente a percepire il corrispettivo.

In passato, la Cassazione si era espressa a favore della validità del patto di opzione e a favore del recesso unilaterale da parte del titolare.

Lo stesso giudice di legittimità, ha poi superato questa impostazione con la sentenza 9491/2003, arrivando alla tesi, tuttora prevalente, dell’invalidità di queste facoltà (così anche: Tribunale di Milano, del 25 luglio 2000, del 15 dicembre 2001 e Tribunale di Perugia 26 aprile 2005).

Non è, altresì, considerato legittimo un patto con un compenso di «carattere meramente simbolico, iniquo o sproporzionato» (Cassazione 4891/1998), ritenendosi la congruità di un corrispettivo che oscilli, generalmente, tra il 15% e il 35% della retribuzione (Tribunale di Milano, sentenza del 18 giugno 2001, sentenza del 5 giugno 2003, sentenza del 22 ottobre 2003).

Peraltro, come giudicato dalla recente pronuncia sopra citata, la nullità del patto può ravvisarsi anche in ragione delle modalità con cui viene pattuita la corresponsione del corrispettivo. Il giudice di merito, in conformità ad altra giurisprudenza di merito (Tribunale di Milano sentenze 13 agosto 2007, 28 settembre 2010) e all’orientamento già espresso dallo stesso tribunale (sentenza 347/2015), ha giudicato che la previsione del pagamento di un corrispettivo mensile in costanza di rapporto di lavoro violi il disposto dell’articolo 2125 Codice civile, perché rende ex ante indeterminabile il compenso, con conseguente alterazione della sinallagmaticità, considerato che, al momento della conclusione del patto, il corrispettivo è del tutto indeterminato, perché ancorato a una circostanza fattuale, quale la durata del rapporto, del tutto imprevedibile. Un ulteriore elemento da valutare per la validità del patto è il suo ambito territoriale di efficacia.

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L’amministratore delegato non è dipendente se ha poteri ampi

7 Ottobre 2019

Il Sole 24 Ore 18 SETTEMBRE 2019 di Giampiero Falasca

MESSAGGIO INPS

Rapporto di subordinazione compatibile se si è soggetti alle direttive del Cda

Cumulabilità esclusa per gli amministratori e i soci unici

Come si combina la subordinazione con il ruolo di amministratore o socio di una società? Il messaggio Inps 3359/2019, pubblicato ieri, risponde alla domanda fornendo un’utile ricognizione dei profili giuridici di una questione che ha una grande rilevanza per gli organi di vertice delle imprese.

Per quanto riguarda la possibile coesistenza tra la posizione di amministratore di società di capitali e quella di lavoratore dipendente della medesima impresa, l’Istituto, ricordando un principio più volte affermato dalla Cassazione, evidenzia che la carica di amministratore (o di presidente), in sé considerata, non è incompatibile con lo status di lavoratore subordinato. Le due posizioni possono coesistere a patto che la persona sia soggetta alle direttive, alle decisioni e al controllo dell’organo collegiale.

Tale affermazione non è contraddetta neanche dall’eventuale conferimento del potere di rappresentanza al presidente, in quanto tale delega non estende automaticamente all’organo i diversi poteri deliberativi.

La situazione è differente per l’amministratore unico della società: tale organo è detentore del potere di esprimere da solo la volontà propria dell’ente sociale e quindi non può assumere anche la posizione di lavoratore dipendente della stessa società.

Per quanto concerne l’amministratore delegato, viene esclusa la compatibilità con la subordinazione qualora la delega conferita dal consiglio di amministrazione in suo favore abbia portata generale, dandogli facoltà di agire senza il consenso del Cda.

Invece l’attribuzione da parte del consiglio di amministrazione del solo potere di rappresentanza, ovvero di specifiche e limitate deleghe all’amministratore, non è incompatibile, in linea generale, con l’instaurazione di genuini rapporti di lavoro subordinato.

Il messaggio Inps esamina anche la compatibilità del rapporto di lavoro subordinato con la posizione di socio. Viene esclusa la possibilità di far coesistere le due posizioni in caso di unico socio, perché la concentrazione della proprietà nelle mani di una sola persona esclude l’effettiva soggezione alle direttive di un organo societario; la cumulabilità viene negata anche nel caso in cui il socio abbia assunto di fatto l’effettiva ed esclusiva titolarità dei poteri di gestione della società.

A parte questi casi, l’Inps ricorda che la semplice coesistenza della posizione di socio e amministratore può essere sintomatica della non sussistenza del vincolo di subordinazione, ma non è di per sé sufficiente a escludere che ci sia un vero rapporto di dipendenza.

Occorre verificare, caso per caso, se questo rapporto esiste, avendo presente alcuni indicatori di subordinazione: il potere deliberativo deve essere affidato all’organo (collegiale) di amministrazione della società nel suo complesso; il soggetto deve svolgere, in concreto, attività che non siano ricomprese nei poteri di gestione che discendono dalla carica ricoperta o dalle deleghe. È necessario, inoltre, che la costituzione e gestione del rapporto di lavoro siano ricollegabili a una volontà della società distinta dal soggetto titolare della carica (amministratore, eccetera): un legame formale eccessivo tra i due rapporti è, quindi, da sconsigliare.

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Senza la pubblicazione del bilancio non c’è prescrizione per mala gestio

7 Ottobre 2019

Il Sole 24 Ore 05 SETTEMBRE 2019 di Patrizia Maciocchi

SOCIETÀ

Il rendiconto costituisce la prova dell’incapienza per i creditori

Documento non surrogabile da decreti ingiuntivi o annullamento dei fidi

La prescrizione non blocca l’azione di responsabilità del curatore verso gli amministratori della società per mala gestio, se manca la prova della pubblicazione del bilancio. E l’assenza di pubblicazione, utile a rendere chiara l’incapienza ai creditori, non può essere “surrogata” nè dai di decreti ingiuntivi a carico della fallita, nè dalla revoca dei fidi bancari. Il count down per la prescrizione può partire solo dal momento della pubblicazione dei “conti” perché solo allora ai creditori è chiara la situazione patrimoniale. La Cassazione (sentenza 22077) respinge il ricorso dei componenti del Cda di una società per azioni, contro, la condanna al risarcimento di oltre un milione e 700 mila euro, per aver provocato l’insufficienza patrimoniale della società di capitali poi fallita. Nel mirino dei giudici era finita un’operazione immobiliare, fatta con estrema negligenza, con costi eccessivi e attuando, infine, una cessione di quote in favore di una società di diritto lussemburghese, che non offriva garanzie sul pagamento del debito di una società di diritto francese, costituita dalla Spa amministrata dai ricorrenti e da questa partecipata per il 99,6 per cento. I membri del board respingevano l’ accusa di cattiva gestione e negavano la possibilità applicare nei loro confronti la norma del codice civile sulla responsabilità verso i creditori sociali (articolo 2394). Norma che presuppone che il danno patrimoniale ai creditori sia collegato da un rapporto di causalità con gli atti di mala gestio. E la dimostrazione del nesso sarebbe mancata nell’azione promossa dal fallimento, visto che la curatela non aveva dimostrato che i pregiudizi derivati dall’operazione “disinvolta” contestata, avessero prodotto lo stato di insufficienza patrimoniale. Alla Corte territoriale sarebbe poi sfuggito un altro elemento: la cessione era stata decisa dai precedenti amministratori e per i nuovi consiglieri era stato impossibile disporre degli elementi per verificare la correttezza dell’affare. Infine, c’è la carta della prescrizione. Con l’approvazione del bilancio e la sua regolare pubblicazione, i creditori sapevano dell’incapienza patrimoniale e c’era dunque il presupposto per far decorre i termini della prescrizione. Nessuna delle circostanze “a discolpa” è accettata dalla Cassazione. Ad iniziare dallo scaricabarile sulla passata gestione per la cessione. Un passaggio di mano deliberato circa 20 giorni dopo l’assunzione in carica del nuovo Cda composto dai ricorrenti. E dal momento dell’”investitura” derivava la responsabilità per le decisioni future. Nulla da fare sulla prescrizione. È vero che il bilancio di esercizio che segnala il “rosso” è utile a comunicare lo stato di incapienza della società, ma è vero anche che se non viene pubblicato, sono al corrente del deficit solo gli organi sociali e non i terzi. L’azione di responsabilità del curatore sarebbe stata prescritta in cinque anni a partire dal giorno in cui i creditori fossero stati avvertiti della condizione della Spa. Però non c’era prova della pubblicazione del semestrale né di altri elementi dimostrativi della conoscibilità. Allo scopo non sono, infatti, utili i decreti ingiuntivi, la revoca dei fidi e il mancato rispetto dei piani di rientro concordati con i creditori.

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Prestito dei soci, ritenuta anche sugli interessi non erogati

7 Ottobre 2019

Quotidiano del Fisco – Il Sole 24 Ore del 10 SETTEMBRE 2019 di Roberto Bianchi

La società di capitali che riceve somme di denaro dai propri soci a titolo di mutuo ha l’obbligo di operare la ritenuta d’acconto sugli interessi dovuti non solo nel caso in cui la corresponsione degli stessi sia effettivamente avvenuta, ma anche quando essa sia soltanto presunta dalla norma. Ciò in virtù del carattere ordinariamente oneroso del mutuo previsto dall’articolo 1815 del Codice civile, oltreché in forza della presunzione prevista dal comma 2 dell’articolo 45 del Dpr 917/1986. Lo afferma la Cassazione nelle tre ordinanze 20625, 20626 e 20627 depositate il 31 luglio 2019.

Già nel 2018 con l’ordinanza 3819 i giudici di legittimità avevano precisato che i finanziamenti dei soci alla società si devono presumere onerosi, con la conseguente applicazione della ritenuta d’acconto sui correlati interessi passivi, non solo nel caso in cui la corresponsione degli stessi risulti essere effettiva, ma anche qualora sia solamente presunta.

La dimostrazione della mancata percezione di interessi attivi sulle somme concesse a mutuo incombe sul contribuente, atteso il carattere normalmente oneroso di tali operazioni, così come previsto sia dall’articolo 1815 del Codice civile che dall’articolo 45 del Tuir.

Ne consegue che la società che ha ricevuto il finanziamento dai propri soci è obbligata a operare la ritenuta d’acconto sugli interessi dovuti (articolo 26 del Dpr 600/1973) non solo quando la corresponsione di tali importi è concretamente avvenuta, ma anche quando la stessa sia soltanto presunta dalla legge.

Va altresì evidenziato che in precedenza la Suprema corte, con la sentenza 8747/2008, aveva affermato che la semplice indicazione degli interessi passivi nel bilancio della società rappresentava essa stessa ragione per cui scattasse l’obbligo di operare la ritenuta d’acconto, a prescindere dalla materiale erogazione degli stessi.

Pertanto, nonostante la norma di riferimento individui il momento di effettuazione della ritenuta in occasione del pagamento degli interessi, il collegio di legittimità ha ritenuto che la presunzione di percezione degli interessi in capo al titolare del reddito operi anche per il sostituto d’imposta e che tale obbligo sorga automaticamente in conseguenza dell’iscrizione in bilancio per competenza degli interessi maturati.

Dunque una volta stabilito che una determinata operazione costituisce un finanziamento oneroso, ovvero che la stessa debba considerarsi tale da un punto di vista tributario, è importante accertare in quali casi e in quale momento sorga in capo al soggetto beneficiario, nella sua veste di sostituto d’imposta, l’obbligo di applicazione della ritenuta alla fonte sugli interessi passivi.

Con specifico riferimento agli interessi relativi alle somme finanziate, il comma 5 dell’articolo 26 del Dpr 600/1973 dispone che i soggetti indicati nel comma 1 dell’articolo 23 del Tuir operino una ritenuta a titolo d’acconto con obbligo di rivalsa sugli interessi da essi corrisposti.

La norma, pertanto, utilizzando il termine “corrisposti” nel significato più comune attribuitogli ossia di “proventi materialmente versati”, collega l’insorgere dell’obbligo di effettuazione della ritenuta all’atto del pagamento degli interessi, e non a circostanze diverse, come, per esempio, la loro eventuale maturazione (effettiva o presunta) o la loro iscrizione nelle poste di debito del soggetto che ha beneficiato del finanziamento.

Appare pertanto evidente come la conclusione a alla quale è giunta la Suprema corte non collimi con quanto letteralmente previsto in materia dal dettato normativo.

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