Per la dichiarazione fraudolenta bastano le note spese gonfiate

13 Febbraio 2020

Il Sole 24 Ore 17 GENNAIO 2020 di Antonio Iorio

DECRETO FISCALE

Il contribuente potrebbe incorrere nel delitto anche in modo inconsapevole

La condotta si concretizza con fatture e documenti per operazioni inesistenti

L’inasprimento delle sanzioni penali in caso di dichiarazione fraudolenta mediante utilizzo di documenti per operazioni in tutto o in parte inesistenti e l’estensione della responsabilità amministrativa delle società in presenza di questo reato – previsti dal decreto fiscale – comporta un’attenta valutazione delle modalità attraverso cui potrebbe manifestarsi la condotta illecita.

Spesso, infatti, quando si parla di false fatturazioni si pensa all’ipotesi fraudolenta tipica rappresentata dalla contabilizzazione (e successiva utilizzazione in dichiarazione) di una fattura a fronte di un’operazione che non sia mai avvenuta. In realtà, tra le ipotesi più frequenti ci sono anche i casi di fatture soggettivamente inesistenti nelle quali l’imprenditore, che riceve i documenti fiscali è ignaro della frode in atto, risultando coinvolto solo perché non avrebbe utilizzato la normale diligenza e accortezza nei rapporti con il fornitore. A ciò si aggiungono altre ipotesi, nella prassi non rare, in cui si è in presenza non di fatture in senso tecnico, ma di meri documenti che hanno rilevanza ai fini fiscali e, in quanto tali, idonei a integrare l’illecito penale.

A norma dell’articolo 1 del Dlgs 74/2000 per «fatture o altri documenti per operazioni inesistenti» cui fanno riferimento i delitti di dichiarazione fraudolenta (articolo 2) e di emissione dei medesimi documenti (articolo 8) si intendono non solo le fatture in senso tecnico, ma anche gli altri documenti aventi rilievo probatorio analogo in base alle norme tributarie.

Per l’integrazione dei delitti in esame occorre poi che fatture e/o documenti siano emessi a fronte di operazioni non realmente effettuate in tutto o in parte o che indicano i corrispettivi o l’Iva in misura superiore a quella reale, ovvero che riferiscono l’operazione a soggetti diversi da quelli effettivi.

Si pensi ad esempio alle note spese che vengono prodotte dagli amministratori in occasione di trasferte. Questi documenti vengono poi dedotti dalla società.

Nel caso in cui – a seguito di specifici riscontri – le spese chieste a rimborso (e dedotte) dovessero risultare non sostenute in tutto o in parte dall’interessato (nota spesa gonfiata), non vi è dubbio che si è in presenza di un documento avente rilevanza fiscale che riporta i corrispettivi in misura superiore a quella reale o addirittura relativo ad operazioni mai effettuate.

La società che riporta (tra i costi) in dichiarazione tali documenti potenzialmente sta integrando la condotta illecita di dichiarazione fraudolenta prevista dall’articolo 2 del Dlgs 74/2000. Va da sé che è il rappresentante legale responsabile in prima battuta di tale reato e potrebbe addurre a propria difesa l’assenza dell’elemento soggettivo non essendo a conoscenza della falsità (totale o parziale) del documento dedotto ove questo sia stato prodotto da altro soggetto. Tuttavia, se la nota spese è stata predisposta proprio dall’amministratore o da uno degli amministratori che si è recato in trasferta è evidente che la consapevolezza della commissione dell’illecito non è più in discussione.

La sanzione penale a seguito delle modifiche introdotte dal Dl 124/2019 per questo delitto è ora della reclusione da 4 a 8 anni se l’imponibile non veritiero dedotto supera i 100mila euro in un periodo di imposta o da 18 mesi a 6 anni se l’importo è inferiore.

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Membri del Cda responsabili in caso di infortunio, salvo formale atto di delega

13 Febbraio 2020

Il Sole 24 Ore 14 GENNAIO 2020 di Luca Cairoli e Alberto De Luca

La Corte di cassazione, consentenza n. 54, depositata il 3 gennaio 2020, è tornata a esprimersi sulla distribuzione delle responsabilità in materia di obblighi di prevenzione infortuni nelle società di capitali. Esprimendo un principio generale, la Corte ha prima di tutto evidenziato che nelle società di capitali gli obblighi inerenti alla prevenzione degli infortuni posti dalla legge a carico del datore di lavoro «gravano indistintamente su tutti i componenti del consiglio di amministrazione, salvo il caso de delega, validamente conferita, della posizione di garanzia”. Nel caso in esame un consigliere delegato di una società di capitali aveva impugnato la sentenza della Corte d’Appello di Firenze, di conferma della pronuncia di primo grado, con la quale era stato ritenuto responsabile del reato di lesioni colpose, per avere, con condotta omissiva consistente nel non aver adeguatamente adempiuto agli obblighi in materia di sicurezza sul lavoro, cagionato lesioni personali a un lavoratore infortunatosi nello svolgimento della prestazione lavorativa.

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Dal Tar Lazio sì alle valute virtuali nel quadro RW

13 Febbraio 2020

Il Sole 24 Ore 1 FEBBRAIO 2020 di  Giuseppe Latour

La scelta delle Entrate ha una base solida nelle norme antiriciclaggio

Le valute virtuali possono rientrare nel campo del quadro RW ed essere tassate attraverso l’inserimento in questa parte delle dichiarazioni. La soluzione ha un fondamento solido nella legge italiana, a partire dal recepimento della Quarta e della Quinta direttiva antiriciclaggio (decreti legislativi 90/2017 e 125/2019).

È questa la posizione presa dal Tar Lazio, con la sentenza 1077/2020, che conferma come l’impostazione data dall’agenzia delle Entrate nel corso degli ultimi mesi sia corretta. E che, quindi, l’impiego delle criptovalute sia rilevante dal punto di vista fiscale qualora generi «materia imponibile».

La vicenda

La sentenza nasce da un ricorso di alcune associazioni attive nella blockchain in Italia contro il modello Redditi 2019 e le relative istruzioni dell’agenzia delle Entrate. Le associazioni contestavano «l’inserimento della valute virtuali nell’ambito degli obblighi di monitoraggio fiscale». E, in particolare, la previsione, nelle istruzioni relative al quadro RW, dell’obbligo di indicare anche «le altre attività estere di natura finanziaria e valute virtuali».

Secondo le associazioni, questo inserimento delle valute virtuali negli obblighi dichiarativi sarebbe «privo di titolo e contrastante» con alcune norme, come il recepimento della Quarta direttiva antiriciclaggio (decreto legislativo 90/2017), dove i prestatori di servizi relativi a valute virtuali vengono classificati tra gli operatori «non finanziari». La sottoposizione delle criptovalute a imposizione sarebbe irragionevole e discriminatoria, perché queste non hanno natura finanziaria o di investimento.

La decisione

Il Tar respinge il ricorso, evidenziando in particolare che il trattamento fiscale dell’impiego della moneta elettronica non dipende solo dalle istruzioni dell’agenzia delle Entrate impugnate dalle associazioni, ma anche da alcune norme,come il decreto legislativo 125/2019 dove la valuta virtuale viene definita come una rappresentazione digitale di valore, non emessa né garantita da una banca centrale o da un’autorità pubblica.

In questo quadro, secondo il Tar, l’impiego di moneta virtuale rientra a pieno titolo nel perimetro dell’articolo 67 del Tuir e, quindi, è soggetto a tassazione quando genera «materia imponibile».

Il Tar, invece, ha scelto di non pronunciarsi su un’altra questione: la “non territorialità” delle criptovalute che impedirebbe di ravvisare un elemento di collegamento geografico con il titolare.

Secondo i giudici amministrativi, questo elemento riguarda l’attuazione del rapporto di imposta ed è per questo appannaggio della giurisdizione tributaria.

Il Sole 24 Ore 1 FEBBRAIO 2020 di  Giuseppe Latour

La scelta delle Entrate ha una base solida nelle norme antiriciclaggio

Le valute virtuali possono rientrare nel campo del quadro RW ed essere tassate attraverso l’inserimento in questa parte delle dichiarazioni. La soluzione ha un fondamento solido nella legge italiana, a partire dal recepimento della Quarta e della Quinta direttiva antiriciclaggio (decreti legislativi 90/2017 e 125/2019).

È questa?la posizione presa dal Tar Lazio, con la sentenza 1077/2020, che conferma come l’impostazione data dall’agenzia delle Entrate nel corso degli ultimi mesi sia corretta. E che, quindi, l’impiego delle criptovalute sia rilevante dal punto di vista fiscale qualora generi «materia imponibile».

La vicenda

La sentenza nasce da un ricorso di alcune associazioni attive nella blockchain in Italia contro il modello Redditi 2019 e le relative istruzioni dell’agenzia delle Entrate. Le associazioni contestavano «l’inserimento della valute virtuali nell’ambito degli obblighi di monitoraggio fiscale». E, in particolare, la previsione, nelle istruzioni relative al quadro RW, dell’obbligo di indicare anche «le altre attività estere di natura finanziaria e valute virtuali».

Secondo le associazioni, questo inserimento delle valute virtuali negli obblighi dichiarativi sarebbe «privo di titolo e contrastante» con alcune norme, come il recepimento della Quarta direttiva antiriciclaggio (decreto legislativo 90/2017), dove i prestatori di servizi relativi a valute virtuali vengono classificati tra gli operatori «non finanziari». La sottoposizione delle criptovalute a imposizione sarebbe irragionevole e discriminatoria, perché queste non hanno natura finanziaria o di investimento.

La decisione

Il Tar respinge il ricorso, evidenziando in particolare che il trattamento fiscale dell’impiego della moneta elettronica non dipende solo dalle istruzioni dell’agenzia delle Entrate impugnate dalle associazioni, ma anche da alcune norme,come il decreto legislativo 125/2019 dove la valuta virtuale viene definita come una rappresentazione digitale di valore, non emessa né garantita da una banca centrale o da un’autorità pubblica.

In questo quadro, secondo il Tar, l’impiego di moneta virtuale rientra a pieno titolo nel perimetro dell’articolo 67 del Tuir e, quindi, è soggetto a tassazione quando genera «materia imponibile».

Il Tar, invece, ha scelto di non pronunciarsi su un’altra questione: la “non territorialità” delle criptovalute che impedirebbe di ravvisare un elemento di collegamento geografico con il titolare.

Secondo i giudici amministrativi, questo elemento riguarda l’attuazione del rapporto di imposta ed è per questo appannaggio della giurisdizione tributaria.

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Il ravvedimento blocca il penale se c’è uso di fatture per operazioni inesistenti

13 Gennaio 2020

Quotidiano del Fisco 5 DICEMBRE 2019 di Lorenzo Lodoli e Benedetto Santacroce

Non punibilità penale per il reato di utilizzo di fatture per operazioni inesistenti con ricorso al ravvedimento operoso che estingue il debito tributario e conferma implicita dell’ammissibilità dello specifico strumento deflattivo per sanare le connesse violazioni amministrative.
Queste sono due importanti conseguenze che derivano dalle modifiche introdotte dalla Commissione Finanze della Camera all’articolo 39 del Dl 124/2019.
In particolare, l’intervento legislativo introduce una ulteriore lettera q-bis) con cui viene ampliata la platea dei reati non punibili prevista dall’articolo 13 del Dlgs 74/2000 ricomprendendo, in caso di integrale pagamento del debito, anche le fatture inesistenti.
Inoltre, dà, legislativamente, conferma della possibilità di fruire del ravvedimento operoso per sanare le violazioni fiscali amministrative derivanti dall’utilizzo di fatture inesistenti.

Causa di non punibilità

Nel corso dell’esame in sede referente è stata prevista un’integrazione del comma 2 dell’articolo 13 del Dlgs 74/2000, che consente la non punibilità di alcuni reati tributari a fronte del tempestivo pagamento del debito tributario. In particolare l’articolo 13, al comma 2, prevede la non punibilità dei reati di dichiarazione infedele (articolo 4) e omessa dichiarazione (articolo 5) se i debiti tributari (comprese sanzioni e interessi), sono stati estinti mediante integrale pagamento degli importi dovuti, a seguito del ravvedimento operoso o della presentazione della dichiarazione omessa entro il termine di presentazione della dichiarazione relativa al periodo d’imposta successivo, purché ciò avvenga prima che il contribuente abbia avuto formale conoscenza di accessi, ispezioni, verifiche o dell’inizio di qualunque attività di accertamento amministrativo o penale.
Il provvedimento interviene sul comma 2 per aggiungere – tra i reati che si estinguono con l’integrale pagamento del debito tributario prima che l’interessato abbia notizia dell’apertura del procedimento a suo carico – il reato di dichiarazione fraudolenta mediante uso di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti (articolo 2) e il reato di dichiarazione fraudolenta mediante altri artifici (articolo 3).
Si tratta di fattispecie di reato che sino ad oggi, per la loro intrinseca gravità, erano soggette, in caso di versamento integrale del dovuto, solo ad una riduzione di pena (articolo 13-bis) e che invece diventano non più punibili.
Ai fini del riconoscimento della causa di non punibilità non si chiede solo il pagamento integrale del debito tributario, essendo altresì necessaria l’ulteriore condizione della volontaria resipiscenza, in quanto il contribuente non deve essere a conoscenza di accessi o ispezioni. Solo in presenza di tali circostanze, infatti, il legislatore ha escluso la necessità dell’applicazione di una sanzione.

Ravvedimento per le fatture inesistenti

Con le modifiche al comma 2 dell’articolo 13 il legislatore ha altresì confermato che è possibile usufruire del ravvedimento operoso per sanare la violazione fiscale derivante dalla deduzione di costi e/o dalla detrazione dell’Iva su fatture inesistenti. Sul punto ricordiamo che l’agenzia delle Entrate (circolare 180/1998 e Telefisco 2018) e la Guardia di Finanza (circolare 1/2018) hanno un approccio negativo in quanto non si rientrerebbe nel concetto di “errore od omissione” rilevante ai sensi dell’articolo 13 del Dlgs 472/97 ma si tratterebbe di un comportamento connotato da intrinseca antigiuridicità. La questione era stata, di recente, affrontata anche dalla Corte di cassazione (sentenza 5448/2018) che, invece, partendo dall’evoluzione normativa proprio del Dlgs 74/2000 ed evidenziando l’importanza riconosciuta al ravvedimento ai fini del riconoscimento dei benefici penali (ad esempio, patteggiamento e riduzione pena articolo 13-bis), aveva concluso che tale istituto doveva avere rilevanza anche per il reato di cui all’articolo 2.

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I beni in natura sono da tassare

13 Gennaio 2020

Il Sole 24 Ore 17 DICEMBRE 2019 di Giovanni Renella

L’INTERPELLO

Niente categoria omogenea se solo un amministratore su tre riceve dei soldi

Non fa realizzare una categoria omogenea la presenza di amministratori (due su tre) che per l’incarico svolto percepiscono esclusivamente compensi in natura. In questo caso, i benefit assolvono infatti una funzione essenzialmente remunerativa da assoggettare a tassazione come reddito di lavoro dipendente.

È questa una delle risposte fornite dall’agenzia delle Entrate – risposta 522 del 13 dicembre 2019 – ad un interpello presentato da una società di consulenza che intende attivare un piano di welfare aziendale on top, da riservare a due categorie di beneficiari costituite da:

alcuni lavoratori dipendenti;

i tre membri del CdA, di cui un componente percepisce compensi in danaro inquadrabili tra i redditi assimilati a quelli di lavoro dipendente (articolo 50, comma 1, lettera c-bis, Tuir) mentre gli altri due amministratori svolgono l’incarico a titolo gratuito.

In linea generale sia gli emolumenti in denaro che i valori corrispondenti ai beni, ai servizi e alle opere percepiti dal dipendente in relazione al rapporto di lavoro costituiscono redditi imponibili e concorrono alla determinazione del reddito di lavoro dipendente (cd. principio di onnicomprensività).

Come già chiarito in altre documenti di prassi (circolare 28/E/2016) condizione per l’applicazione del regime di non imponibilità (articolo 51, comma 2, Tuir) è che l’erogazione in natura non si traduca in un aggiramento degli ordinari criteri di determinazione del reddito di lavoro dipendente e in una violazione dei principi di capacità contributiva e di progressività dell’imposizione. In altri termini non devono essere alterati nè le regole di tassazione dei redditi di lavoro dipendente (e assimilati) nè il connesso principio di capacità contributiva che comunque attrae nella base imponibile anche le retribuzioni erogate in natura.

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Le fotografie non bastano per dedurre la sponsorizzazione

12 Gennaio 2020

Quotidiano del Fisco  03/01/2020 di Alessandro Borgoglio

Qualora il Fisco contesti l’inesistenza della sponsorizzazione, i cui costi sono stati dedotti dal contribuente, a quest’ultimo non basta opporre la dimostrazione dei pagamenti e l’allegazione delle fotografie dell’evento sponsorizzato per contrastare la contestazione dell’Erario. Lo ha stabilito la Cassazione, con l’ordinanza 29707/2019 .

Secondo il costante orientamento di legittimità, nel caso in cui l’Ufficio ritenga che la fattura concerna operazioni oggettivamente inesistenti, ovvero che sia mera espressione cartolare di operazioni commerciali mai poste in essere, e quindi, contesti anche l’indebita detrazione dell’Iva e la deduzione dei costi, ha l’onere di provare che l’operazione fatturata non è mai stata effettuata, indicando, a tal fine, elementi anche indiziari; a quel punto passerà sul contribuente l’onere di dimostrare l’effettiva esistenza delle operazioni contestate: tale ultima prova non può, tuttavia, consistere nell’esibizione della fattura o nella dimostrazione della regolarità formale delle scritture contabili o dei mezzi di pagamento, poiché questi sono facilmente falsificabili e vengono normalmente utilizzati proprio allo scopo di far apparire reale un’operazione fittizia (da ultimo, Cassazione 6865/2019).

Sulla base di tali principi, qualche tempo fa i giudici di merito avevano stabilito che, ai fini della prova di cui il Fisco è onerato, è necessario che vengano forniti precisi elementi di prova, o quantomeno indizi precisi e concordanti, che possano chiarire se vi sia stata sovrafatturazione e in che quantità; all’assenza di tali elementi indiziari o probatori dell’Ufficio non può supplire il richiamo a verifiche e a dichiarazioni formulate nel corso di accertamenti verso altre società clienti di quella che avrebbe reso le prestazioni, e la mancanza di elementi gravi, precisi e concordanti rende l’avviso di accertamento illegittimo (Ctr Venezia, sentenza 35/3/18 del 10 gennaio 2018).

In merito alla prova contraria di cui è gravato il contribuente, invece, altri giudici di merito hanno recentemente stabilito che, qualora l’Ufficio contesti l’inesistenza delle sponsorizzazioni, con conseguente recupero a tassazione delle relative spese dedotte, il contribuente può validamente dimostrare l’esistenza delle operazioni e la legittimità della deduzione attraverso l’esibizione dei contratti di sponsorizzazione, delle fotografie e degli articoli della stampa specializzata attestanti la sponsorizzazione, dei bonifici di pagamento e della regolare documentazione contabile, atteso che tali elementi sono sufficienti a provare la concreta effettuazione delle prestazioni di sponsorizzazione richieste (Ctr Bologna, sentenza 627/01/19 del 28 marzo 2019).

Non pare essere, però, dello stesso avviso la Cassazione, che, con la sentenza qui commentata, ha bocciato la decisione dei giudici di merito a favore della società sponsor, in quanto basata su elementi totalmente privi di valenza presuntiva, quali i documenti bancari attestanti il versamento del corrispettivo in denaro dell’operazione, inoltre richiamando genericamente le riproduzioni fotografiche dell’evento sponsorizzato, senza individuarne il contenuto e specificarne il contesto e la collocazione spazio temporale, tralasciando invece di considerare la genericità del contenuto dei contratti di sponsorizzazione stipulati e la presenza di precedenti sentenze emesse contro la associazione sportiva dilettantistica sponsorizzata, concernenti la violazione degli obblighi dichiarativi e l’emissione di fatture false per altre sponsorizzazioni.

 

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Sì a investigatori privati per illeciti dei dipendenti

12 Gennaio 2020

Il Sole 24 Ore 30 DICEMBRE 2019 di Simona Destefani e Annamaria Pedroni

CONTENZIOSO

Le indagini non devono verificare l’adempimento contrattuale del lavoratore

Tra le motivazioni ammesse le truffe sulla malattia e la concorrenza all’azienda

Il Tribunale di Padova, con il decreto 6031 del 4 ottobre 2019 ha fatto il punto sulle condizioni di liceità delle investigazioni sui dipendenti. Il ricorso ad agenzie private da parte del datore di lavoro e l’utilizzabilità in giudizio del loro operato richiede un’attenta osservanza di limiti, che sono in costante aggiornamento, data l’evoluzione delle normative che disciplinano gli interessi coinvolti e l’interpretazione che la giurisprudenza ne offre.

L’indagine commissionata dal datore di lavoro ad agenti investigativi rientra nell’ipotesi di «impiego di personale addetto alla vigilanza dell’attività lavorativa», rispetto alla quale l’articolo 3 dello Statuto dei lavoratori delimita la sfera di intervento del datore (l’articolo 3 prevede infatti che i nominativi e le mansioni specifiche del personale addetto alla vigilanza dell’attività lavorativa debbano essere comunicati ai lavoratori interessati).

Secondo l’interpretazione estensiva che la giurisprudenza ormai consolidata ha elaborato di questa disposizione, il divieto di controllo occulto sancito dalla norma non opera quando il ricorso alle investigazioni private sia diretto a verificare comportamenti che possono configurare condotte illecite o anche solo il sospetto della loro realizzazione (Cassazione, sentenze 4984/2014 e 15094/2018).

Il controllo delle agenzie investigative non deve sconfinare nella vigilanza dell’attività lavorativa vera e propria del dipendente. In particolare, non deve consistere nel controllo dell’adempimento diligente delle mansioni, che è riservato direttamente al datore di lavoro e ai suoi collaboratori. Le indagini devono invece riguardare comportamenti che abbiano rilevanza non come mero inadempimento contrattuale, ma come autonome fattispecie illecite: civili, amministrative o penali. La giurisprudenza riconosce come verifiche di condotte illecite (perpetrate o sospettate) che consentono il ricorso all’agenzia investigativa:

quelle relative all’attività extralavorativa svolta dal dipendente violando il divieto di concorrenza, che sia fonte di danni per il datore di lavoro (Cassazione, sentenza 12810/2017);

quelle riguardanti l’uso improprio da parte del dipendente dei permessi previsti dall’articolo 33 della legge 104/1992 (Cassazione sentenza 4984/2014);

i comportamenti adottati nel corso di una malattia, laddove i controlli non devono riguardare gli aspetti sanitari (preclusi dall’articolo 5 dello Statuto dei lavoratori) ma le condotte extralavorative che attestano l’insussistenza della malattia o dello stato di incapacità lavorativa (Cassazione, sentenza 12810/2017);

quelle relative allo svolgimento durante l’orario di lavoro di attività retribuita in favore di terzi (Cassazione, sentenze 5269 e 14383 del 2000);

le attestazioni con le quali il dipendente afferma la propria presenza in servizio a fronte di prestazione lavorativa resa invece a orario ridotto (Cassazione, sentenza 14975/2018).

Il principio è quello dei cosiddetti controlli difensivi, che la giurisprudenza ha poi esteso all’interpretazione dell’articolo 4 dello Statuto dei lavoratori sui controlli a distanza, nel testo anteriore alla riforma avvenuta con l’articolo 23 del Dlgs 151/2015.

I controlli a distanza

Le considerazioni relative al rapporto tra la nuova formulazione dell’articolo 4 e i controlli difensivi non coinvolgono l’articolo 3 dello Statuto dei lavoratori e quindi il tema del ricorso ad agenzie investigative. Il sistema normativo previsto dal riformulato articolo 4 riguarda infatti gli specifici controlli dei lavoratori tramite l’istallazione di impianti audiovisivi e strumenti tecnologici. Tra l’altro, il testo dell’articolo 3 non è stato modificato dalla riforma.

Il differente campo di applicazione porta a escludere che l’utilizzazione in giudizio del materiale fotografico della relazione investigativa sia normato dall’articolo 4, comma 1, dello Statuto, che riguarda impianti «installati» dal datore di lavoro.

I requisiti dell’incarico

È essenziale che l’incarico alle agenzie investigative sia conferito per iscritto. Il loro operato deve essere conforme alla normativa sulla privacy e alla giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo in materia.

Le verifiche tramite investigatori devono rispondere all’esigenza di assicurare la protezione di diritti. L’attività di controllo non deve essere frutto di un’iniziativa arbitraria del datore di lavoro e non deve riguardare indistintamente un gruppo di lavoratori.

Lo strumento di indagine usato deve essere il meno invasivo fra quelli disponibili e i controlli devono essere attuati con strumenti proporzionati al fine conseguito. Infine, i dati raccolti devono essere trattati da chi riceve e da chi conferisce l’incarico e le indagini devono concludersi in un termine ragionevole prestabilito.

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Caccia agli italiani attivi in Svizzera tra il 2015 e il 2017

12 Gennaio 2020

Il Sole 24 Ore 19 DICEMBRE 2019 di Michela Folli e Marco Piazza

In cooperazione con Berna

Verifiche su chi non ha aderito al programma di voluntary disclosure

Prosegue la collaborazione dell’Amministrazione federale svizzera con l’agenzia delle Entrate per individuare gli italiani che detenevano fra il 2015 e il 2017 attività in Svizzera non dichiarate e non hanno aderito al programma italiano di voluntary disclosure (si veda “Il Sole 24 Ore” del 14 dicembre).

Questa forma di assistenza amministrativa era prevista dalla roadmap siglata in corrispondenza alla firma, il 23 febbraio 2015, del protocollo di modifica del trattato Italia – Svizzera (poi ratificato in Italia con la legge 69 del 2016), che ha sbloccato lo scambio d’informazioni su richiesta riferito a contribuenti individuati.

La roadmap prevedeva una ulteriore facoltà dell’agenzia delle Entrate: la possibilità di presentare alle autorità svizzere particolari “richieste di gruppo”, riferite, cioè, a categorie di contribuenti non individuati singolarmente perché ignoti al fisco italiano ma accomunate da un definito schema di comportamento. Lo scopo era di intercettare gli individui che, nel periodo intercorrente fra la data della firma del protocollo (23 febbraio 2015) e l’efficacia dello scambio automatico di informazione (operativo dal 2017, in base all’accordo fra Ue e Svizzera del 27 maggio 2017), avessero inteso svuotare i loro conti in Svizzera per evitare di aderire alla procedura di collaborazione volontaria: i cosiddetti correntisti recalcitranti.

L’intento è stato realizzato con lo specifico accordo sulle «richieste di gruppo» firmato dalla Svizzera il 2 marzo 2017. L’accordo individua lo schema di comportamento dei contribuenti sospettati di non aver adempiuto alle loro obbligazioni fiscali da inserire nelle richieste di gruppo e i casi di esclusioni.

Sulla base di questo accordo, l’amministrazione federale svizzera invia agli interessati, attraverso la loro banca, una lettera con cui chiede il consenso (procedura semplificata) a trasmettere alle autorità italiane le generalità del correntista e il saldo del conto al 28 febbraio 2015 e al 31 dicembre 2016.

Se l’interessato non darà il consenso entro 20 giorni, l’Autorità federale emetterà una propria decisione impugnabile presso il Tribunale amministrativo federale. Non pare che negare il consenso possa produrre altri effetti se non quelli di dilatare i tempi della trasmissione dei dati.

Molto probabilmente la richiesta di gruppo intercetterà casi in cui il contribuente anziché aderire alla voluntary abbia legittimamente preferito accedere al ravvedimento operoso. In questi casi sarebbe possibile non prestare il consenso e opporsi alla decisione dell’autorità federale, ma è forse più pratico dare il consenso e prepararsi a documentare la regolarità della posizione qualora l’agenzia avviasse un’indagine.

La richiesta di gruppo intercetterà anche i comportamenti di chi si sia sottratto alla voluntary chiudendo i conti svizzeri dopo il 23 febbraio 2015.

Intercetterà anche coloro che abbiano ritenuto di eludere la procedura trasferendo la residenza in Svizzera nel 2015. I falsi trasferimenti di residenza sono, peraltro monitorati anche in base ai dati presenti in anagrafe tributaria (provvedimento 43999 del 3 marzo 2017).

Va ricordato che in base all’articolo 12 del decreto legge 78/09 le attività illecitamente detenute in Paesi black list (fra i quali vi è ancora la Svizzera) si presumono, salvo prova contraria, costituite mediante redditi sottratti a tassazione.

Il Fisco potrà quindi assoggettare ad aliquota progressiva Irpef e addizionali l’intero saldo risultante al 23 febbraio 2015. In tal caso le sanzioni sono raddoppiate. Potrebbe anche capitare che gli uffici presumano – sempre salvo prova contraria ? che il saldo sia stato mantenuto all’estero per tutti i precedenti periodi d’imposta ancora accertabili (è in scadenza il periodo 2008 sia per il quadro RW che per i redditi in caso di dichiarazione omessa e il periodo 2010 per i redditi in caso di dichiarazione infedele).

Andrà quindi considerata con attenzione la scelta di aderire all’ultima chance consentita: il ravvedimento operoso, che consentirebbe di beneficiare di sanzioni ridotte.

Il ravvedimento operoso sarà comunque molto più oneroso della voluntary disclosure, non solo perché non sono più applicabili gli importanti sconti di sanzione del regime speciale, ma soprattutto in presenza di conti cointestati o con delegati. Ciascuno degli interessati, infatti, dovrà pagare le sanzioni sull’intero importo della relazione e non, come in occasione della procedura di collaborazione volontaria, sulla quota del conto di propria pertinenza.

Le richieste di gruppo potrebbero riservare sorprese anche per chi ha aderito alla voluntary, ove emergesse che la disclosure non è stata completa. Secondo l’agenzia delle Entrate (circolare 10/15, paragrafo 9.2), però, qualora dopo il perfezionamento della procedura emergano ulteriori attività estere o redditi non dichiarati, è fatta comunque salva l’efficacia degli atti perfezionatisi nell’ambito della procedura stessa. Gli Uffici dovranno però interessare l’Autorità giudiziaria per l’eventuale applicazione delle sanzioni penali di cui all’articolo 5-septies del decreto legge 167/90.

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Per la videosorveglianza non basta l’ok dei dipendenti

12 Gennaio 2020

Il Sole 24 Ore 18 DICEMBRE 2019 di Giuseppe Bulgarini d’Elci

TUTELA PRIVACY

Sempre necessario l’accordo sindacale o l’autorizzazione dell’ispettorato del lavoro

Il consenso dei lavoratori all’installazione di un impianto di videosorveglianza nei locali dell’impresa non vale a sanare la mancata attivazione della procedura prevista dall’articolo 4 della legge 300/1970, la quale impone l’accordo sindacale o, in difetto, l’autorizzazione dell’ispettorato territoriale del lavoro.

L’interesse collettivo sotteso alla disciplina statutaria sull’installazione delle telecamere o di altri strumenti da cui possa derivare il controllo a distanza sull’attività dei lavoratori impedisce di attribuire ai singoli dipendenti, benché il consenso sia stato espresso dalla totalità delle persone che prestano la propria attività in azienda, la facoltà di sanare eventuali irregolarità del datore.

La Cassazione ha raggiunto queste conclusioni (sentenza n. 50919, depositata ieri) per il caso di un datore condannato in sede penale a 1.000 euro di ammenda per avere installato 16 telecamere nella propria struttura aziendale, senza previamente raggiungere un accordo con la rappresentanza sindacale interna e neppure avere ottenuto l’avallo dell’ispettorato.

Il datore si era difeso sostenendo, tra l’altro, che i lavoratori avevano espresso ex post il proprio consenso sulla presenza del sistema di videosorveglianza in azienda, con ciò superando i profili di illiceità penale connessi alla mancata attivazione della procedura di cui all’articolo 4 della legge 300/1970.

La Cassazione non concorda con questa tesi e ritiene, discostandosi da un precedente indirizzo, che l’esistenza di una dichiarazione sottoscritta da tutti i dipendenti in cui sia stato affermato di liberare il datore dagli obblighi del previo accordo sindacale e dell’autorizzazione dell’ispettorato, non abbia portata esimente rispetto alla produzione dell’illecito penale.

Le disposizioni dell’articolo 4 in materia di installazione di impianti da cui possa derivare il controllo a distanza sull’esercizio delle mansioni risponde, per la Cassazione, al superiore interesse collettivo alla tutela della dignità dei lavoratori. Per tale ragione, solo le rappresentanze sindacali dei lavoratori, in quanto espressione dell’interesse collettivo e superindividuale alla tutela dei diritti fondamentali in cui si sviluppa il rapporto di lavoro, sono deputate ad esprimere il consenso rispetto all’installazione dei sistemi di videosorveglianza. Il consenso dei lavoratori che operano nell’impresa non risulta idoneo a sanare l’illecito, ad avviso della Cassazione, anche in considerazione del ruolo di parte debole che connota il lavoratore rispetto alla parte datoriale. «Le diseguaglianze di fatto» e la «indiscutibile» sproporzione nei rapporti di forza economico-sociali a vantaggio del datore impone di ritenere inderogabile il confronto con le rappresentanze sindacali e, in mancanza di accordo, l’autorizzazione dell’ispettorato per la valida installazione dei sistemi di sorveglianza.

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In 16 Paesi europei su 28 scatta la gogna fiscale

12 Gennaio 2020

Il Sole 24 Ore 10 DICEMBRE 2019 di Roberto Galullo e Angelo Mincuzzi

Trasparenza. Le liste di chi non paga le tasse vengono diffuse nel Regno Unito, Spagna e in molti Stati dell’Est. Gli elenchi sono pubblicati anche negli Usa, Uganda e Nigeria

Svergognati. Umiliati. Disonorati. Screditati. Messi alla berlina di fronte ai parenti, ai vicini di casa e ai colleghi di lavoro. Dati in pasto ai media senza che nessuna legge sulla privacy possa porre un argine. Succede ogni anno agli evasori fiscali di 16 dei 28 Paesi dell’Unione europea. Succede anche negli Stati Uniti, in Australia e in Messico. Accade perfino in Nigeria e in Uganda, in Russia e in Corea del Sud. Un modo per combattere l’evasione fiscale, una piaga la cui gravità è stata sottolineata anche ieri dal presidente della Repubblica, Sergio Mattarella.

«Sbatti il mostro in prima pagina» era il titolo di un film del 1972 diretto da Marco Bellocchio e interpretato da un magistrale Gian Maria Volonté. Oggi i tempi sono cambiati e i “mostri”, in questo caso i nomi degli evasori fiscali, vengono “sbattuti” su una piazza virtuale senza più confini e visibile 24 ore su 24: il world wide web.

Decine, centinaia di migliaia di nomi galleggiano nel mare magnum di internet all’interno di liste pubblicate nei siti delle Agenzie delle Entrate e dei ministeri del Tesoro di almeno 26 Paesi nel mondo, di 23 Stati degli Usa, di decine di contee disseminate dalla costa atlantica a quella del Pacifico degli Stati Uniti. Messi insieme, uno dopo l’altro, questi nomi formano un elenco chilometrico a disposizione di tutti, curiosi e criminali inclusi.

“Fiume di denaro”, il format d’inchiesta multimediale del Sole 24 Ore, ha scandagliato in lungo e in largo (in collaborazione con Led Taxand, uno studio internazionale di fiscalisti) questa marea di dati realizzando un primo censimento delle giurisdizioni che hanno deciso di sbattere l’evasore in prima pagina sulla base di un principio saldamente incardinato nel Dna dei Paesi di cultura anglosassone: il “name and shame”. In italiano si potrebbe tradurre più o meno così: “Pubblico il tuo nome e ti svergogno”, cioé faccio sapere a tutti che sei un evasore fiscale, che non paghi ciò che devi alla collettività mentre, magari, il tuo vicino di casa si svena per versare al Fisco fino all’ultimo centesimo di imposte. L’obiettivo è colpire i furbetti con uno stigma che provochi disapprovazione sociale e funga da disincentivo all’evasione fiscale.

Il Paese più agguerrito nell’Ue è l’Irlanda, dove il libro nero degli evasori viene pubblicato dal 1997 e da tre anni viene continuamente aggiornato online. Per restare nel mondo anglosassone, gli elenchi vengono diffusi online anche nel Regno Unito, a cura dell’agenzia fiscale di Sua Maestà.

Nell’Europa continentale c’è un folto drappello di Paesi dell’Est che ha fatto proprio il principio del “name and shame”: Ungheria, Slovacchia, Repubblica Ceca, Bulgaria, Romania, Croazia e Slovenia. Poi ci sono i tre Paesi Baltici: Estonia, Lettonia e Lituania. E scendendo verso sud, la Grecia (almeno fino a cinque anni fa) e Malta.

A Ovest c’è tutta la penisola iberica: Spagna e Portogallo. La Francia ha approvato una legge che impone la pubblicazione dei nomi dei condannati per evasione: è solo questione di tempo, poco per la verità, e si avranno i primi nomi. Il totale fa 16 e il numero salirà a 17 con la Francia. Per scendere nuovamente quando la Brexit diventerà realtà.

Da Dublino a Londra le differenze sono minime. Anche nel Regno Unito – che, come del resto l’Irlanda, è invece generoso nei confronti della privacy sulla tassazione applicata alle multinazionali – vengono pubblicati su Internet nutriti elenchi di evasori fiscali, dove oltre al nome è indicata anche la professione, l’indirizzo, la cifra evasa e l’entità della sanzione ricevuta. Colpisce la quantità di titolari di ristoranti e di take-away inseriti nella lista. Gli elenchi restano online per 12 mesi e prima della pubblicazione del libro nero, il contribuente viene informato dell’inserimento del suo nome.

Si varca il Canale della Manica e ci si dirige verso Est. I tre Paesi baltici hanno ognuno un proprio elenco. L’Estonia lo ha introdotto nel 2014 e inserisce tutti coloro che hanno un debito fiscale di almeno 1.000 euro. In Lettonia basta avere un debito con lo Stato di 150 euro per rientrare nella lista della vergogna, mentre in Lituania ci finiscono soltanto le persone giuridiche con arretrati fiscali di almeno 10mila euro.

A Est il principio del “name and shame” è stato assimilato senza colpo ferire. Praticamente quasi tutti gli ex Paesi del blocco sovietico o della ex Jugoslavia entrati nella Ue lo hanno adottato.

Ma sono gli Stati Uniti il Paese in cui il “name and shame” trova la sua applicazione più diffusa. Qui con il Fisco non si scherza. L’evasione fiscale è un reato gravissimo e le carceri sono piene di contribuenti che hanno evaso o frodato le tasse.

Ben 23 dei 50 Stati che compongono gli Usa mettono alla gogna chi ha dimenticato di saldare i conti con il Fisco, incluso il Delaware, che è diventato il paradiso fiscale numero uno negli Stati Uniti ma che non ha pietà nei confronti dei suoi contribuenti che non pagano le tasse.

Lasciamo gli Stati Uniti e scopriamo che il “name and shame” ha fatto proseliti anche al di là del muro che Donald Trump vuole costruire: in Messico. Qui l’ultimo elenco pubblicato comprende anche il nome di Vicente Fox, ex presidente messicano, che deve al Fisco del suo Paese 15 milioni di pesos, quasi 700mila euro. All’estremo Nord del continente, c’è anche il Canada.

In Asia ci sono Pakistan, Cina e Corea del Sud. Nel Pacifico c’è l’Australia e in Africa anche Nigeria e Uganda, dove l’elenco viene chiamato “shamelist”, lista della vergogna.

In Nigeria la graduatoria diffusa lo scorso settembre comprende 19.901 nomi di società che devono soldi allo Stato. Nell’elenco c’è anche la Obsanjo Farms Nig Ltd (Feedmill), controllata da Olusegun Obasanjo, presidente del governo militare della Nigeria tra il 1976 e il 1979, e poi rieletto democraticamente tra il 1999 e il 2007.Il giro del mondo finisce nelle Filippine, dove nel sito dell’ufficio del Fisco la pagina dedicata agli evasori è in costruzione.

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