Decreto Legge 6 agosto 2018 nr 103

10 Settembre 2018

Modifiche alla Legge 27 giugno 2013 nr 71 – Legge in materia di sostegno allo sviluppo economico – e al Decreto Delegato 24 aprile 2014 nr 63 – Decreto Delegato in applicazione degli articoli 18, 20, 28, 37 della Legge 27 giugno 2013 nr 71 – Legge in materia di sostegno allo sviluppo economico

Si allega testo completo del Decreto Legge riguardante la modifica alla disciplina delle residenze.

Decreto Legge 6 agosto 2018 nr 103

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Nella vendita di beni e servizi l’Iva segue l’attività principale

10 Settembre 2018

Il Sole 24 Ore 01 AGOSTO 2018 di Laura Ambrosi

CASSAZIONE

Il caso dell’impresa italiana che commercializza prodotti di un soggetto Ue

Se a fronte di un compenso determinato unitariamente, un soggetto italiano si impegna sia a vendere i prodotti di una impresa Ue, sia a offrire servizi accessori, ai fini Iva si configura un’unica operazione, con la conseguente applicazione per tutti i servizi del trattamento fiscale previsto per l’attività principale, nella specie in regime di esenzione.
A confermare questo interessante principio è la Corte di cassazione con l’ordinanza n. 20234 depositata ieri.
Una società italiana svolgeva attività di promozione e vendita di prodotti informatici (hardware e software) per conto di un soggetto estero. Emetteva così fatture senza Iva e, trovandosi in una posizione creditoria, presentava richiesta di rimborso. L’agenzia delle Entrate rigettava la richiesta. La società italiana impugnava il diniego e i giudici di merito, in entrambi i gradi, confermavano la legittimità del rimborso.
In particolare, secondo la Ctr, si era in presenza di un contratto di agenzia (e non di mandato come sostenuto dall’Ufficio) con la conseguenza che tutte le fatture emesse alla società Ue non dovevano essere soggette a Iva. Analogo regime andava applicato alle prestazioni accessorie poste a carico dell’impresa italiana, in quanto nella promozi one dei contratti per conto del proponente rientravano molteplici attività volte a sostenere, incrementare e invogliare l’acquisto del prodotto offerto.
L’Agenzia ricorreva per Cassazione lamentando, tra l’altro, la diversa qualificazione del contratto (di mandato e non di agenzia) tra le due società. I giudici di legittimità hanno rigettato il ricorso. Secondo l’ordinanza 20234, ha innanzitutto poca rilevanza la qualificazione giuridica del contratto essendo indubbio che la società italiana si interponesse tra l’impresa estera e l’acquirente finale e che lo scopo dei contraenti era la commercializzazione dei prodotti esteri. Tutti gli altri servizi avevano il solo fine di favorire la vendita del prodotto principale.
Il contratto stipulato aveva un’unica finalità, tanto è che il compenso pattuito era unitario rispetto all’attività complessivamente considerata, e non già per singoli servizi offerti. Tali prestazioni (amministrative e tecniche) infatti rientrano nel concetto di servizi accessori essendo unico l’obiettivo economico prefissato dai contraenti e unico anche l’interesse dei destinatari della prestazione, i quali senza i servizi accessori, non acquisterebbero il prodotto principale.
In conclusione, secondo la Cassazione, se il contratto con cui un soggetto italiano si impegna, per un compenso unitariamente determinato, a commercializzare prodotti di altro soggetto appartenente a Paese Ue, offrendo anche altri servizi tecnici e amministrativi costituenti il mezzo per la migliore fruizione dei prodotti commercializzati, ai fini Iva si configura un’unica operazione economica non potendosi scindere l’intermediazione dalle altre prestazioni da ritenersi accessorie. Ne consegue che il regime Iva applicabile è quello relativo al servizio principale nella specie di esenzione.

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Conti Ubs, dai giudici svizzeri stop alle liste di nominativi

10 Settembre 2018

Il Sole 24 Ore 03 AGOSTO 2018 di Paolo Bernasconi

LOTTA ALL’EVASIONE

Accolto il principio in base al quale avere un conto estero non è indice di reato

Se la sentenza fosse confermata a rischio-blocco anche le richieste italiane

La magistratura svizzera ha bloccato la trasmissione delle liste collettive dei contribuenti francesi coinvolti nel caso dei conti Ubs. È stato infatti accolto il ricorso della banca contro la trasmissione dei nomi di oltre 40mila clienti di Ubs residenti in Francia, lista scoperta dal ministero pubblico tedesco durante le perquisizioni del maggio 2012 e nel luglio 2013 in Ubs Germania. Sulle liste trasmesse da Berlino a Parigi mancava solamente il nome, benché fosse indicato chiaramente che si trattava di clienti residenti in Francia. Secondo il fisco francese l’omessa dichiarazione fiscale aveva comportato una perdita di oltre 10 miliardi. L’amministrazione svizzera aveva chiesto ad Ubs i nominativi di questi clienti e aveva deciso di trasmetterli al fisco francese. Ubs ha così presentato ricorso al Tribunale amministrativo federale (Taf) che lo ha accolto, decidendo quindi di respingere la richiesta di assistenza francese. Di conseguenza, nessun nome verrà trasmesso al fisco francese. C’è però da aspettarsi che, come in altri casi recenti, il fisco svizzero ricorrerà al Tribunale federale svizzero, che più volte ha già sconfessato sentenze del Tribunale amministrativo federale.
Se venisse confermata, questa sentenza avrà ricadute sulle domande analoghe presentate da altri Paesi, tra cui l’Italia. La sentenza del Taf sostiene che il solo fatto di essere titolari o di disporre di un conto presso una banca svizzera non costituisce un indizio sufficiente tale da richiedere la trasmissione del nome per permettere al fisco straniero di verificare se i depositi siano stati dichiarati oppure, almeno, siano stati regolarizzati nell’ambito dei programmi di voluntary disclosure.
Per quanto riguarda il rischio dei contribuenti italiani, il diritto svizzero prevede requisiti estremamente elevati per accogliere le «domande di gruppo»riguardanti contribuenti che hanno messo in atto un medesimo modello di comportamento. La sentenza ha esteso questi requisiti restrittivi anche alle cosiddette “domande collettive”, che si fondano su liste dalle quali sia facile risalire con sicurezza al nome di titolari di conti bancari. Una simile domanda italiana è attualmente all’esame del Fisco svizzero riguardo al nome di oltre 9mila clienti della lista Credit Suisse reperita dalla Procura della Repubblica di Milano. Ma questa giurisprudenza potrebbe essere applicabile anche nel caso in cui l’agenzia delle Entrate dovesse richiedere alla Svizzera informazioni e documenti riguardanti le migliaia di contribuenti italiani che, a partire dal 2010, hanno trasferito la loro residenza in Canton Ticino. Anche riguardo a questi nomi, la giurisprudenza potrebbe quindi ritenere che il solo fatto di essersi trasferiti non costituisca motivo sufficiente per una richiesta di assistenza.

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Per evitare la doppia tassazione residenza decisa dai trattati

10 Settembre 2018

Il Sole 24 Ore 28 AGOSTO 2018 di Marco Piazza

RESIDENZA FISCALE

Si applicano le tie break rules che puntano alla sostanza dei fatti

Alcune convenzioni hanno criteri più restrittivi, come quella con la Svizzera

Le convenzioni contro le doppie imposizioni stipulate dall’Italia (in genere conformi al modello Ocse) contengono regole che consentono di risolvere i cosiddetti conflitti di residenza. Se, infatti, in base alla norma italiana e quella dell’altro Stato contrente, il soggetto si considera residente in entrambi gli Stati, per stabilire in quale Stato sia effettivamente residente si devono applicare le cosiddette tie break rules contenute nel trattato, secondo le quali – di norma – la persona si considera residente:
a) nello Stato in cui dispone di un’abitazione permanente;
b) se ha l’abitazione permanente in entrambi gli Stati, in quello in cui le sue relazioni personali ed economiche sono più strette;
c) se non si può individuare tale Stato, in quello in cui «soggiorna abitualmente»;
d) se soggiorna abitualmente in entrambi gli Stati, in quello della cittadinanza;
e) e in caso di doppia cittadinanza: accordo fra le autorità competenti.
Stando ai trattati, quindi, se un persona fisica è considerata dalle nostre autorità fiscali residente in Italia per il solo fatto di non essersi cancellata dall’Anagrafe di residenti, ma è anche considerata residente nello Stato in cui è emigrato, in base alle leggi di quello Stato (perché vi ha stabilito, di fatto la dimora abituale o il centro degli affari e interessi), l’agenzia delle Entrate non può esimersi dall’applicare le tie break rules contenute nella convenzione, le quali sono basate principalmente su elementi di fatto e non formali.
La supremazia dei trattati è sancita dall’articolo 75 del Dpr 600 del 1973, secondo il quale, nell’applicazione delle imposte sui redditi sono fatti salvi gli accordi internazionali resi esecutivi in Italia. Il principio è tutelato dall’articolo 117 della Costituzione e dalla giurisprudenza della Consulta (sentenze 348 e 349 del 2007).
Per questo, la più attenta giurisprudenza di merito non ha mancato di evidenziare come l’accertamento della residenza fiscale del contribuente non possa prescindere dall’applicazione delle tie break rules previste dai trattati (si vedano ad esempio le sentenze della Ctr Toscana, 506 del 20 febbraio 2017 e 840 del 13 marzo 2018 e quella della Cpt Firenze 131 del 12 gennaio 2016). Ecco quindi che anche l’emigrato che abbia dimenticato di iscriversi all’Aire potrà evitare di essere assoggettato a una doppia imposizione appellandosi alla convenzione fra l’Italia e lo Stato in cui ha trasferito la propria residenza.
Non sempre, però le convenzioni sono applicabili. Alcune presentano clausole contro l’abuso del trattato, per evitare che regole miranti ad evitare doppie imposizioni consentano in realtà di sottrarre ad imposizione i redditi in entrambi i Paesi.
Per esempio, l’articolo 4, paragrafo 5 della convenzione con la Svizzera stabilisce che non è considerata residente di uno Stato contraente, la persona che:
a) pur soddisfacendo le tie break rules, sia soltanto beneficiaria apparente di redditi in realtà di pertinenza di persone non residenti in quello Stato;
b) una persona fisica che non sia assoggettata alle imposte generalmente riscosse in quello Stato, per i redditi provenienti dall’altro Stato Contraente; situazione in cui normalmente si trovano i residenti in Svizzera che hanno optato per il regime cosiddetto “globalista” (si veda con motivazioni diverse, ma non nella sostanza, Cpt Genova, sentenza 620 del 24 marzo 2015).

 

 

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Srl, presunzione legittima sui conti dei familiari

10 Settembre 2018

Il Sole 24 Ore del 2 Agosto 2018 di Alessandro Galimberti

Accertamento

E’ legittima l’imputazione a ricavi dell’attività d’impresa delle movimentazioni riscontrate sui conti correnti dei familiari del socio se la compagine sociale è particolarmente ristretta e se i familiari non hanno altri redditi. Spetta in questi casi al contribuente, su cui è ribaltato l’onera della prova, dimostrare in modo analitico che l’origine degli apporti patrimoniali sui conti dei congiunti ha genesi diversa da quella, appunto, dell’impresa. La Sezione tributaria della Cassazione (ordinanza 20408/18) ha annullato due decisioni della Ctr Campania che avevano respinto la pretesa delle Entrate sulla ripresa a tassazione dei movimenti accertati sul conto del padre di un socio e della nonna – ormai 87 enne – a fini Ivsa, Irap e Ires della Srl, oltre a irrogare sanzioni per la mancata ritenuta alla fonte della quota di utili spettanti allo stesso socio congiunto. Secondo la Ctr, l’Ufficio non aveva adeguatamente motivato l’imputazione a reddito d’impresa delle movimentazioni sui conti di terzi, ma la Cassazione rifacendosi a una serie omogenea di precedenti (14556/18; 4829/15; 27075/17 tra gli ultimi) ha argomentato che, a fronte del padre del socio che non aveva mai presentato dichiarazioni fiscali e dalla di lui madre 87 enne, è legittimo applicare la presunzione dell’articolo 32 del dpr 600/73, superabile solo da prove analitiche contrarie, e comunque a carico del contribuente.

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Sottrazione fraudolenta con la finta separazione

10 Settembre 2018

Il Sole 24 Ore 09 AGOSTO 2018 di Laura Ambrosi e
Antonio Iorio

CASSAZIONE

Sussistenza del reato se la realtà documentata è diversa da quella effettiva

Si amplia la portata del reato di sottrazione fraudolenta: dopo il fondo patrimoniale, la scissione societaria e la cessione di azienda, anche la separazione consensuale dei coniugi può integrare il delitto. È quanto emerge dalla sentenza 32504/2018 della Cassazione del 16 luglio scorso.
Nella vicenda a base della decisione un contribuente nell’ambito di un accordo di separazione aveva trasferito un immobile di sua proprietà alle figlie minori a titolo di contributo del loro mantenimento.
L’amministrazione finanziaria dubitava della separazione sia sulla base dei contenuti risultanti dai profili di Facebook, sia per il fatto che sulla cassetta postale di un coniuge apparivano entrambi i nominativi.
Poiché la separazione era successiva alla notifica di un avviso di accertamento con il quale era ipotizzato il reato di dichiarazione infedele, l’Ufficio segnalava alla Procura anche l’ipotesi del delitto di sottrazione fraudolenta al pagamento delle imposte.
Il Gip del Tribunale ordinava il sequestro preventivo finalizzato alla confisca delle somme di denaro e di immobili per equivalente al profitto dei reati. La misura era confermata anche in sede di riesame.
L’indagato ricorreva così in Cassazione eccependo tra gli altri, anche un vizio di motivazione della sentenza per il reato di sottrazione fraudolenta. Il ricorrente e la moglie, infatti, erano effettivamente separati e residenti in comuni diversi. Nessuna indicazione contraria poteva desumersi dai profili di Facebook, estratti peraltro dai funzionari dell’Agenzia delle entrate e non da organi investigativi, tanto meno dalla circostanza che il nome appariva sulla cassetta postale dell’altro coniuge. La separazione consensuale omologata ed i relativi accordi non possono essere simulati, con la conseguenza che ai fini del delitto manca la fraudolenza che nemmeno può ravvisarsi nell’epoca in cui tale separazione è stata attuata. Inoltre, il contribuente aveva tentato la procedura di accertamento con adesione e nessun atto coattivo per il recupero del credito era stato avviato.
I giudici di legittimità, respingendo il ricorso, hanno ricordato che la sottrazione fraudolenta al pagamento delle imposte è reato di pericolo, integrato dall’uso di atti simulati o fraudolenti per occultare i propri beni, così pregiudicando la possibile azione dell’Erario per il recupero delle somme. La condotta di alienazione simulata, alternativa agli atti fraudolenti, è attuata quando il programma contrattuale non corrisponde deliberatamente alla effettiva volontà dei contraenti.
Sicuramente, nell’alienazione simulata rientrano anche i trasferimenti a titolo gratuito, poiché la norma non pone limiti in tal senso.
L’atto fraudolento invece è il comportamento idoneo a rappresentare a terzi una realtà (la riduzione del patrimonio del debitore) non corrispondente al vero.
In sintesi, la Cassazione ha affermato che il reato può essere integrato con ogni atto di disposizione del patrimonio che abbia la sua causa nel pregiudizio alle ragioni creditorie dell’Erario.
Con riferimento all’accordo di separazione, la Suprema Corte ha rilevato che la giurisprudenza civile in materia lo ha ritenuto non impugnabile per simulazione. Peraltro, i coniugi possono, senza l’intervento del giudice, far cessare gli effetti della sentenza con comportamenti univoci, incompatibili con lo stato di separazione.
La Cassazione ha così rilevato che il ripristino della comunione di vita e d’intenti materiale e spirituale, che costituisce il fondamento del vincolo coniugale, fa venir meno gli effetti della separazione. In tale contesto, l’omologa, essendo venuti meno gli originari intenti di divisione, diventa improduttiva di effetti e non è vincolante per i coniugi per gli obblighi patrimoniali assunti.
La sussistenza della fraudolenza, secondo i giudici, era quindi riconducibile all’evidente dissociazione tra la realtà documentata con la separazione e quella effettiva, ossia l’unione dei coniugi.

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Reati fiscali, sequestrabili i beni del legale rappresentante

10 Settembre 2018

Il Sole 24 Ore 25 AGOSTO 2018 di Laura Ambrosi e
Antonio Iorio

EVASIONE

La possibilità sancita dalle Sezioni unite della Corte di cassazione

La misura quando è impossibile aggredire il profitto dell’illecito

I sequestri di beni mobili e immobili in presenza di reati tributari sono sempre più frequenti. In caso di condanna per un delitto fiscale, l’obbligatorietà della confisca di quanto evaso, anche per importi equivalenti, prevista dall’articolo 12 bis del Dlgs 74/2000, comporta che le procure procedano preventivamente al sequestro dei beni stessi.
Così, dinanzi a una contestazione di un reato tributario e in assenza del pagamento del dovuto, la Procura può già nelle more delle indagini, disporre il sequestro preventivo finalizzato a garantire la successiva confisca. Si tratta di una misura che riguarda i beni costituenti il profitto o il prezzo del reato tributario, che non appartengono a persona estranea al reato (cosiddetta confisca diretta) ovvero, quando ciò non sia possibile, dei beni, di cui il reo ha la disponibilità, per un valore corrispondente a tale prezzo o profitto (confisca per equivalente).
Normalmente avviene nelle forme per equivalente, ed è riferita ad utilità patrimoniali, nella disponibilità del reo, di valore corrispondente all’evasione commessa.
Al riguardo la Cassazione ha precisato (sentenza 35786/ 2017) che non è necessaria per l’applicazione della misura cautelare la sussistenza del pericolo di dispersione del patrimonio: il giudice è così tenuto a verificare semplicemente che i beni rientrino nelle categorie delle cose oggettivamente suscettibili di confisca.
Una delle questioni più dibattute riguarda il soggetto nei cui confronti debba essere disposto il sequestro. La problematica è delicata perché, in presenza di violazioni tributarie costituenti delitto commesse da una società, il beneficio illecito di sovente non è conseguito dal rappresentante legale (in genere l’amministratore) ma dall’impresa e dai soci. Sul punto sono intervenute le Sezioni unite penali (sentenza 10561/2014) secondo cui il sequestro può essere disposto anche sui beni del legale rappresentante della società ma occorre distinguere il caso del sequestro “diretto” da quello per “equivalente”. Nella prima ipotesi la misura cautelare riguarda denaro o beni direttamente riconducibili al profitto del reato. Nella seconda ipotesi, invece, il vincolo “per equivalente” è correlato alla impossibilità di aggredire ciò che presenti un nesso di derivazione qualificata con il reato, con la conseguenza che si aggrediscono beni per un valore corrispondente.
Nei confronti di una società è consentito esclusivamente il sequestro preventivo finalizzato alla confisca di denaro o di altri beni fungibili o di beni direttamente riconducibili al profitto del reato. È escluso il sequestro finalizzato alla confisca per equivalente relativo a beni della persona giuridica, salvo che quest’ultima non sia un mero schermo fittizio. Ai danni del rappresentante legale della società (il reo) sono ammesse invece entrambe le misure cautelari.
Per un orientamento più garantista della Corte, il sequestro preventivo finalizzato alla confisca per equivalente può essere disposto sui beni personali degli amministratori solo nell’ipotesi in cui il profitto (o i beni a esso riconducibili) non siano più nella disponibilità dell’ente anche in esito ad una valutazione sommaria (Cassazione 6053/2017).
In tale contesto, però la Cassazione (38723/ 2018) ha precisato che se al momento dell’emissione del provvedimento non venga compiuto l’accertamento delle disponibilità costituenti il profitto del reato in capo alla società, occorre disporre il sequestro cautelare in via subordinata sia nei confronti dell’ente sia del legale rappresentante. Solo così viene predisposto il titolo per riservare alla fase dell’esecuzione la ricerca dei beni da sottoporre a sequestro finalizzato alla confisca diretta e in caso di mancato rinvenimento per equivalente.

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Omessa iscrizione all’Aire sanabile con le convenzioni

10 Settembre 2018

Il Sole 24 Ore 28 AGOSTO 2018 di Marco Piazza

in caso di espatrio

Al giudice va ricordato che la forma può essere superata

Non cancellarsi dall’Anagrafe nazionale della popolazione residente (Anpr) quando si emigra può avere conseguenze fiscali molto gravi. Ma esiste un rimedio se fra l’Italia e lo Stato estero in cui il contribuente ha trasferito la propria residenza c’è una convenzione contro le doppie imposizioni. Occorre però che sia l’interessato a contestare in giudizio il comportamento dell’Ufficio che non abbia tenuto conto del trattato. Altrimenti si rischia di alimentare un filone, già piuttosto significativo di sentenze della Cassazione, che possono indurre, erroneamente, a ritenere che la norma interna prevalga in ogni caso quella pattizia.
In Italia, come nella maggior parte delle giurisdizioni, si applica il principio secondo cui i soggetti residenti nel territorio dello Stato sono soggetti a imposizione sui redditi ovunque prodotti (in Italia e all’estero), mentre i soggetti non residenti sono tassati solo per i redditi prodotti in Italia (articolo 3, comma 1 del Dpr 917/1986).
Per determinare la residenza fiscale delle persone fisiche, si deve fare riferimento all’articolo 2, comma 2 del Testo unico, in base al quale si considerano residenti le persone che per la maggior parte del periodo d’imposta:
sono iscritte nelle anagrafi della popolazione residente (requisito formale);
oppure hanno nel territorio dello Stato, secondo il Codice civile, la residenza (cioè l’abituale e volontaria dimora), o il domicilio (cioè la sede principale dei propri affari ed interessi), requisiti che presuppongono accertamenti di fatto relativi ad elementi sia oggettivi sia soggettivi.
Inoltre, come stabilito dall’articolo 2, comma 2-bis, si considerano residenti, salvo prova contraria del contribuente, anche i cittadini italiani cancellati dalle anagrafi della popolazione residente e trasferiti in Stati o territori individuati nella black list di cui al Dm 4 maggio 1999. I tre requisiti individuati nel comma 2 sono tra loro “alternativi” e non concorrenti; sarà pertanto sufficiente il verificarsi di uno solo di essi affinché un soggetto sia considerato fiscalmente residente in Italia.
È però frequente che, anche per semplice ignoranza delle procedure, soggetti residenti in Italia che emigrino definitivamente per motivi di lavoro o familiari, omettano di ottenere la cancellazione dalle anagrafi dei soggetti residenti e di iscriversi, se necessario, all’Aire.
In questi casi, il tenore letterale della norma non lascia scampo. Il soggetto continua ad essere considerato residente fiscalmente in Italia anche se ha tagliato tutti i ponti con il nostro Paese. L’effetto è, il più delle volte, che risulta essere soggetto a tassazione sia nello Stato di effettiva residenza, sia in Italia sui redditi ovunque prodotti nel mondo. La Cassazione sul punto è inflessibile. A partire dalla sentenza 1215/1998 si è consolidata la massima che l’iscrizione «nelle anagrafi della popolazione residente» deve ritenersi, in materia fiscale, dato preclusivo di ogni ulteriore accertamento ai fini della individuazione del soggetto passivo d’imposta. In altri termini in materia fiscale la forma è destinata a prevalere sulla sostanza nell’ipotesi in cui la residenza venga collegata al presupposto anagrafico. A questa pronuncia si sono rifatte diverse successive sentenze dello stesso Collegio, fra le quali la 1783/99; la 9319/06, la 677/15, la 21970/15 e di recente l’ordinanza 16634 /18.
Ciò che lascia perplessi è che quattro di queste sentenze riguardano soggetti emigrati in Stati con i quali era in vigore una convenzione contro le doppie imposizioni (Stati Uniti nella sentenza 1783; Svizzera (677); Romania (21970) e Regno Unito (16634) del tutto trascurata sia nella descrizione dei fatti sia nella motivazione e che probabilmente, se ne fosse tenuto conto, gli esiti del contenzioso sarebbero stati ribaltati.

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L’amministratore appena nominato «paga» per il vecchio

10 Settembre 2018

Il Sole 24 Ore 30 AGOSTO 2018 di Laura Ambrosi

OMESSA DICHIARAZIONE

Nuovo rappresentante legale obbligato a verificare contabilità e bilanci

Il nuovo amministratore risponde del reato di omessa dichiarazione anche per gli anni nei quali il legale rappresentante era diverso: si tratta, infatti, di una violazione facilmente riscontrabile al momento di assunzione dell’incarico. A fornire questo importante principio è la Corte di cassazione, sezione III penale, con la sentenza 39230 depositata ieri.
Il legale rappresentante di una società veniva condannato per il reato di omessa dichiarazione Ires e Iva per il 2011 e per i precedenti periodi di imposta. Si difendeva eccependo che era stato nominato solo il 14 ottobre 2011 e pertanto non poteva rispondere delle omissioni commesse dal precedente amministratore. La Corte di appello confermava la condanna e il legale rappresentante ricorreva in Cassazione. I giudici di legittimità hanno preliminarmente rilevato che ai fini della sussistenza dell’elemento soggettivo del reato di omessa dichiarazione occorre il mancato adempimento dichiarativo con il fine di evadere le imposte e il superamento della soglia di punibilità.
Secondo la Cassazione l’amministratore che subentra nella carica ha l’onere di verificare la contabilità, i bilanci e le ultime dichiarazioni dei redditi, in caso contrario, non solo sarà chiamato a rispondere del reato del mancato versamento di imposte in precedenza non versate, ma anche del reato di omessa presentazione della dichiarazione. La responsabilità per i delitti tributari è di norma attribuita all’amministratore pro-tempore che rappresenta e gestisce l’ente e quindi, chi assume la carica di amministratore accetta volontariamente anche le conseguenze che possono derivare da pregresse inadempienze. Nel momento in cui si assume la rappresentanza legale di una società di capitali, è indispensabile venga posta in essere un’attività ricognitiva finalizzata a rilevare almeno le più evidenti anomalie contabili e fiscali in modo da evitare, in futuro, contestazioni sull’operato altrui.
La Cassazione, in proposito, ha ritenuto necessario tali controlli in particolar modo per i reati per i quali con un minimo di diligenza, il subentrante sia in condizione di poter facilmente verificare la sussistenza di violazioni. Ad esempio, un omesso versamento di imposte dovute o l’omessa presentazione della dichiarazione, sono riscontrabili fin dal momento di assunzione dell’incarico. Diversamente, la dichiarazione fraudolenta mediante utilizzo di fatture false non è immediatamente riscontrabile, poiché richiederebbe un’analisi difficilmente attuabile in tempi brevi.
La Suprema Corte ha altresì precisato che non poteva escludersi la responsabilità penale per il solo fatto che il nuovo amministratore avesse ripetutamente richiesto la documentazione contabile al precedente tuttavia senza riscontro, infatti, dell’inerzia di quest’ultimo, avrebbe dovuto presentare denuncia nei suoi confronti. La decisione è particolarmente rigorosa e impone, in sostanza, che il nuovo amministratore prima di assumere l’incarico verifichi le violazioni fiscali commesse in precedenza. In tale contesto, potrebbe rivelarsi particolarmente utile il ravvedimento operoso anche per i benefici sotto il profilo penale.

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